Abolire anonimato partoriente? Aumentano abbandoni | Tempi.it

dicembre 8, 2014Benedetta Frigerio

Intervista a Frida Tonizzo (Anfaa) che spiega le ragioni della petizione rivolta al governo e al Parlamento e sottoscritta da numerose associazioni

gravidanzaSono cent’anni che lo Stato italiano tutela il diritto alla segretezza del parto, ma in questi giorni è al vaglio della commissione Giustizia alla Camera un emendamento alla legge sull’adozione del 1983 volto ad abolirla «in maniera alquanto subdola». A opporsi al testo presentato dall’onorevole Giuseppe Berretta (Pd) è Frida Tonizzo, consigliere dell’Associazione Nazionale famiglie adottive e affidatarie (Anfaa), che spiega a tempi.it le ragioni della «petizione che abbiamo rivolto al governo e al Parlamento» e sottoscritta da numerose associazioni e fondazioni a tutela della famiglia, degli affidi, delle adozioni, dei diritti dei bambini e dell’infanzia e anche da docenti universitari, medici e psicologi.

Come viene tutelata in Italia la segretezza del parto?
Il comma 7 dell’articolo 28 della legge sull’adozione del 1983 prevede la non accessibilità all’identità della partoriente. Inoltre, il codice della Privacy del 2003 stabilisce che il nascituro possa accedere ai dati sanitari della madre, senza metterne a rischio la segretezza dell’identità.

Come mai dopo tanti anni viene messo in discussione questo principio?
Nel dicembre 2013, una sentenza della Corte Costituzionale (n. 278) ha dichiarato l’illegittimità proprio del comma 7 dell’articolo 28 della legge sull’adozione, ma senza mettere in discussione l’anonimato, bensì dicendo che il legislatore deve introdurre «apposite disposizioni volte a consentire la verifica della perdurante attualità della scelta della madre naturale di non voler essere nominata e, nello stesso tempo, a cautelare in termini rigorosi il suo diritto all’anonimato». Mentre il testo in discussione alla commissione Giustizia mette seriamente in pericolo l’anonimato.

Come?
Si legge che su richiesta dei figli non riconosciuti il tribunale può con «la massima riservatezza» rintracciare la madre per sapere se la sua volontà è cambiata ma, si continua poi, «senza formalità», ossia in assenza di alcun procedimento di garanzia. Cosa accadrebbe? Si arriverebbe nei fatti alla violazione del diritto alla segretezza comunque riaffermato dalla Corte Costituzionale. Le istanze, infatti, sarebbero inevitabilmente prese in esame da un numero elevato di persone: i giudici, i cancellieri e la polizia Giudiziaria del Tribunale per i minori, i responsabili dei reparti maternità e gli impiegati addetti alla conservazione del plico in cui sono indicate le generalità della donna e del neonato, il personale dell’anagrafe tributaria nazionale e i servizi sociali interpellati al riguardo dallo stesso Tribunale. Inoltre, le lettere di convocazione su carta intesta del Tribunale o della Procura per i minorenni o da altro ente e indirizzate alle donne potrebbero essere aperte dai loro familiari. Significa distruggere più vite. E c’è di più, perché il testo prevede che l’identità della donna possa essere rintracciata anche se morta. E chiaro cosa significherebbe per la sua memoria e per quella dei suoi parenti.

Sarà sempre più difficile che una donna partorisca in ospedale scegliendo l’adozione e quindi più facile che opti per l’aborto?
Non solo, perché la legge è retroattiva e riguarda 90 mila donne e 400 bambini non riconosciuti nati ogni anno dal 1950 al 2013, ossia i due terzi dei dichiarati adottabili in Italia. Non nascondiamo le nostre preoccupazioni sulle conseguenze per le gestanti che in futuro volessero non riconoscere il proprio bambino: non dovremo stupirci se non andranno più a partorire in ospedale e se aumenteranno gli infanticidi e gli abbandoni dei neonati. La tutela dell’anonimato è in vigore dagli inizi del ‘900, quando fu messa a norma per permettere alle donne di partorire assistite, a casa o in ospedale, sostituendo le cosiddette “ruote degli esposti”, messe un tempo all’esterno dei conventi. Tutto ciò è sempre servito a dare un’alternativa alle madri impossibilitate a crescere i loro figli, magari frutto di unioni illegittime, dando una possibilità di vita buona ai loro figli.

Eppure chi ha presentato il testo al parlamento sostiene il contrario, ossia che l’anonimato deve essere abolito proprio per tutelare i figli.
Questo non è vero, perché la legge ha sempre tutelato anche il bambino partorito dalla madre che in quel momento, capendo di non poterlo mantenere ed educare o non volendo fargli pagare tutte le conseguenze di un errore, prova a rimediare piuttosto che abortirlo. L’anonimato, quindi, evita che le donne abbandonino i figli in strada, che li partoriscano magari da sole, con tutti i rischi annessi per il nascituro e per lei, o che li abortiscano. Insomma, donne che rinunciano all’aborto o che si privano coraggiosamente del figlio per non recargli danni ulteriori verrebbero punite per il loro coraggio.

C’è chi teme che l’anonimato valga anche per la fecondazione eterologa.
Sono due situazioni imparagonabili. La legge sull’adozione aiuta la donna che prova a tutelare sé e il figlio da una situazione che non avrebbe voluto; nel caso dell’eterologa si progetta deliberatamente di generare un figlio e di darlo via.

Che alternative vede data alla sentenza della Consulta?
Nell’appello al governo appoggiamo la proposta di legge n. 1989, presentata a gennaio 2014 alla Camera dall’onorevole Anna Rossomando e da altri parlamentari in cui si dice che «la partoriente che ha dichiarato alla nascita di non voler essere nominata può in qualsiasi momento esprimere la propria disponibilità a incontrare il proprio nato, con comunicazione scritta inviata al Garante per la protezione dei dati personali». È altresì stabilito che «l’adottato non riconosciuto alla nascita può, raggiunta l’età di venticinque anni, richiedere al Tribunale per i minorenni che ha pronunciato la sua adozione di incontrare la donna che lo ha partorito. Il Tribunale esamina la richiesta che, se accolta, è trasmessa al Garante per la protezione dei dati personali che vi dà seguito, a condizione che la donna abbia precedentemente manifestato la propria disponibilità all’incontro».

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