È penoso che il Governo di un grande Paese di 180 milioni di persone non trovi il coraggio di intervenire su una legge, quella appunto che regola il “reato di blasfemia”, che produce ogni sorta di abuso contro gli individui e di discriminazione contro le minoranze religiose: nel primo caso perché viene usata come un comodo strumento di vendetta per faide private; nel secondo perché, attraverso una rete di testimoni fasulli e magistrati pavidi o complici, serve come una clava da agitare contro coloro che credono diversamente dalla maggioranza.
Ma è, se possibile, ancor più penoso che il Governo del premier Nawaz Sharif si nasconda dietro gli scartafacci dei burocrati per non dover decidere su quel minimo di garanzie costituzionali da concedere a una donna così minacciata da non poter assistere alle udienze del processo che la riguarda, così indifesa da non riuscire nemmeno a farsi processare.
In questo modo Sharif e i suoi ministri disonorano la memoria di due martiri della civile convivenza come Salman Taseer, musulmano, e Shabhaz Bhatti, cristiano, il governatore del Punjab e il ministro per le Minoranze assassinati nel 2011 proprio perché non disponibili alla fuga di fronte all’estremismo islamico. Ma soprattutto consegnano l’intero Pakistan alle forze più oscure e retrive. Le stesse che hanno riportato l’Afghanistan indietro di secoli e hanno trasformato l’area pachistana del confine in una landa dominata da clan e kalashnikov.
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