Bahrein l’altra Siria

di Giorgio Bernardelli

Prendiamo un Paese arabo dove una minoranza sostenuta dall’esercito governa sulla grande maggioranza della popolazione. Una minoranza appartenente a una confessione religiosa diversa rispetto alla maggioranza. E aggiungiamoci pure che il suo governante ha represso nel sangue le proteste di piazza. Vi ricorda qualcosa? Sbagliato: non stiamo parlando della Siria, degli alawiti e di Bashar al Assad. O meglio, non solo. Perché la stessa identica situazione contraddistingue il Bahrein, il Paese del Golfo che è la dimostrazione di come ci siano rivoluzioni arabe più uguali delle altre.

Piccolo arcipelago separato dall’Arabia Saudita da appena un braccio di mare, un milione e duecentomila abitanti, il Bahrein è un Paese a maggioranza sciita governato da un sovrano sunnita, Hamad bin Isa Al Khalifa. Anche per via di questa anomalia – un anno fa – la capitale Manama fu una delle prime a infiammarsi sull’onda delle proteste di Tunisi. Solo che lì l’emiro ha utilizzato una soluzione sbrigativa: nel marzo 2011 ha aperto le porte del Paese all’esercito saudita, che l’ha aiutato a porre fine con metodi sbrigativi alla protesta. Guarda un po’, proprio l’esercito di quei sauditi da mesi in prima linea nel denunciare la repressione in Siria.
È passato via come se niente fosse. Anche perché gli stessi Stati Uniti con il Bahrein ci vanno molto cauti: Manama è infatti la base logistica d’appoggio della Quinta Flotta e dunque è meglio che stia in mani «sicure». Solo che ora il Bahrein sta tornando al centro dell’attenzione per la protesta clamorosa di un detenuto politico: si chiama Abdulhadi Al-Khawaja ha 50 anni ed è ormai in grave pericolo di vita, perché è arrivato al 65° giorno di sciopero della fame. Giusto per dare un termine di paragone: Bobby Sands, l’irlandese dell’Ira, nel 1981 morì al 66° giorno di astensione totale dal cibo.
Perché è in carcere Abdulhadi Al-Khawaja? Proprio per essere stato tra i promotori delle proteste represse un anno fa. E in Bahrein su questo tema non si scherza: il 22 giugno 2011, insieme ad altri otto attivisti, è stato condannato al carcere a vita. In questa condizione l’8 febbraio 2012 ha cominciato la sua protesta estrema, rifiutando il cibo al grido di «libertà o morte». C’è un altro particolare interessante: Al-Khawaja è una figura nota nel mondo delle organizzazioni dei diritti umani. È infatti dagli anni Ottanta che si batte per questa causa in Bahrein. Dopo una prima repressione si era già rifugiato in Danimarca, dove gli era stato garantito la status di rifugiato politico. Era rientrato nel suo Paese solo nel 2001, dopo l’amnistia generale che avrebbe dovuto aprire la strada alle riforme politiche. Per questa ragione il governo della Danimarca è stato tra i pochi fino ad ora ad occuparsi seriamente della sua vicenda. Ma con scarsi risultati: da Manama gli hanno risposto che non deve interferire negli affari interni. Ieri finalmente si è mossa anche la Casa Bianca, con un comunicato ufficiale che è comunque un trionfo di ipocrisia: «Continuiamo a fare presente sia al governo sia ai cittadini del Bahrein, l’importanza di lavorare insieme per affrontare le cause che stanno alla base della sfiducia e promuovere la riconciliazione – vi si legge -. In questo senso facciamo presente la nostra preoccupazione per l’attivista incarcerato Abdulhadi Al-Khawaja e chiediamo al governo del Bahrein di considerare urgentemente tutte le opzioni a disposizione per risolvere questo caso».
Come mai Al-Khawaja ha scelto proprio lo sciopero della fame per la sua protesta? È un’altra domanda molto interessante. Perché non è infatti l’unico detenuto arabo che attualmente sta portando avanti questa forma di protesta. Tutto è cominciato in Israele in dicembre quando Khaled Adnan, un esponente della Jihad islamica, ha iniziato uno sciopero della fame contro la sua detenzione amministrativa, la carcerazione senza processo che è una delle più gravi violazioni del diritto internazionale praticate dallo Stato ebraico. Anche lui è andato avanti per oltre 60 giorni e alla fine ha vinto la sua battaglia: le autorità israeliane hanno accettato di scendere a compromessi e si sono impegnate a liberarlo. A quel punto sulle pagine arabe dei social network Adnan è diventato una specie di mito, «l’uomo che è riuscito a piegare Israele». E anche altri detenuti palestinesi che si trovavano nella stessa condizione ora ne stanno seguendo le orme. Solo che in un carcere del Bahrein ad Abdulhadi Al-Khawaja è venuto in mente che la stessa forma estrema di protesta si può utilizzare anche nelle carceri dei regimi autoritari arabi. E l’esempio sembra cominciare a diffondersi. Perché adesso pare che anche in Arabia Saudita ci sia un certo Mohammed al-Bajadi, arrestato il 21 marzo dopo un tentativo di dimostrazione a Riyadh, che secondo la Saudi Association for Civic and Political Rights sarebbe in sciopero della fame e da qualche giorno avrebbe iniziato anche uno sciopero della sete. Notizia che il portavoce del ministero degli interni saudita si è affrettato a smentire affermando che «al-Bajadi sta mangiando regolarmente ed è in buona salute». Ma la stessa al Jazeera – pur tenendo un profilo relativamente basso su entrambe le vicende – non sembrava ieri credere più di tanto a queste rassicurazioni.

Tornando al Bahrein, vale la pena di aggiungere che la vicenda di Abdulhadi Al-Khawaja viene al pettine proprio alla vigilia dell’unico appuntamento che ogni anno vede Manama sotto i riflettori del mondo. Il 22 aprile, infatti, qui sarebbe in programma il Gran Premio di Formula Uno, il fiore all’occhiello dell’emiro Hamad bin Isa Al Khalifa. Già l’anno scorso vi dovette rinunciare, proprio per via delle proteste. Ora però sui social network gli oppositori promettono di scendere di nuovo in piazza tra il 20 e il 22, quando il circo dei media sarà presente a Manama. Cosa che il governo vuole impedire a tutti i costi. La tensione, dunque, cresce e all’ultimo momento il Gran Premio è tornato in forse: non tanto perché a qualcuno interessi qualcosa di Al-Khawaja e degli sciiti del Bahrein, ma ovviamente solo perché i team hanno paura per la loro sicurezza. Il patron della Formula Uno Bernie Ecclestone preme comunque perché la gara si svolga: in ballo ci sono infatti penali da capogiro. Il tutto mentre un attivista per i diritti umani in carcere sembra deciso a portare avanti fino in fondo uno sciopero della fame. Peccato che sia contro il regime sbagliato per avere davvero a fianco qualcuno si occupi di lui.

Fonte: La Bussola Quotidiana.

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