Civil Partnership, anticamera del matrimonio gay

di Massimo Introvigne

Quando i politici italiani, per apparire «moderni» ed europei, iniziano a usare termini inglesi – spesso, peraltro, con una pronuncia non proprio da Oxford – occorre sempre cominciare a preoccuparsi. Matteo Renzi parla di «civil partnership», e anche qualche politico che dice di non essere d’accordo con lui comincia a farsi condizionare dal linguaggio e a pensare che, dopo tutto, «civil partnership» suona meglio che «unione omosessuale» ed è una merce che forse si vende meglio agli elettori cattolici e anche a qualche vescovo. Risentiamo perfino la vecchia canzone – che non si porta più in nessuna parte del mondo ma ogni tanto rispunta in qualche sagrestia cattolica in Italia – secondo cui la «civil partnership» sarebbe l’alternativa al «matrimonio» omosessuale e il politico cattolico che, accettando la «civil partnership», ribadisse però il suo no al «matrimonio» fra persone dello stesso sesso starebbe in qualche confuso modo difendendo la famiglia.

In napoletano – non in inglese – si dice che «chiacchiere e tabacchiere ‘e legno o Banco ‘e Napule nun l’impegna», cioè – traducendo a uso del fiorentino Renzi – che il Banco di Napoli non accetta in pegno chiacchiere e tabacchiere di legno, le quali ultime valgono quanto le chiacchiere, cioè niente. Apriamo allora la tabacchiera di legno di Renzi e vediamo che cosa c’è dentro. L’espressione «civil partnership» non è un’invenzione di Renzi: fa riferimento a un testo specifico, il Civil Partnership Act 2004, una legge britannica sottoscritta dalla Regina il 18 novembre 2004 ed entrata in vigore il 5 dicembre 2005.

Questa legge si riferisce esclusivamente a coppie dello stesso sesso, cui garantisce gli stessi diritti e impone gli stessi doveri che due coniugi di sesso diverso assumono con il matrimonio. Un minorenne può contrarre una «civil partnership» a partire dall’età di sedici anni, in Scozia anche senza il consenso dei genitori che è invece richiesto in Inghilterra. Un articolo della legge permette a una coppia sposata di un uomo e di una donna dove, dopo il matrimonio, uno dei coniugi ha cambiato sesso, di formalizzare lo stesso giorno il loro divorzio e la loro nuova «civil partnership» come omosessuali.

I due omosessuali che hanno contratto «civil partnership» acquistano tutti i diritti che la legge britannica concede ai coniugi quanto alle proprietà comuni, ai contratti di affitto, alle visite in carcere e in ospedale – diritti che in parte le leggi precedenti della Gran Bretagna non concedevano, mentre esistono già per i conviventi dello stesso sesso in Italia – oltre alla reversibilità della pensione e alla quota legittima riservata al coniuge nella successione, che per i conviventi omosessuali non sposati in Italia non ci sono. La dissoluzione della «civil partnership» è disciplinata in modo identico al divorzio. Le coppie omosessuali in «civil partnership» possono adottare i bambini – in Gran Bretagna potevano farlo come conviventi già dal 2002 – e hanno nei confronti dei bambini adottati diritti esattamente identici a quelli di una coppia di coniugi formata da un uomo e da una donna. Non è obbligatorio che chi ha contratto «civil partnership» cambi cognome, assumendo quello della persona con cui si è unito, o adottando il doppio cognome che unisce quelli dei due partner: ma è possibile, e in molti casi avviene.

La legge prescrive che la cerimonia debba essere del tutto analoga a quella del matrimonio di un uomo e di una donna. I lettori della Nuova Bussola quotidiana conoscono il caso di Lilian Ladele, l’impiegata municipale cristiana di Londra che si occupava di condurre matrimoni civili, e che per ragioni religiose aveva fatto obiezione di coscienza a celebrare «civil partnership» fra omosessuali. Il Comune l’aveva licenziata, e il 15 gennaio 2013 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha confermato il licenziamento, ritenendo che il diritto degli omosessuali a non essere discriminati prevalga anche sulla libertà religiosa. Originariamente, la legge – in un Paese dove Stato e Chiesa, in Inghilterra, non sono separati, e la Regina è formalmente il capo della Chiesa Anglicana – prevedeva che le cerimonie di «civil partnership» non potessero svolgersi nelle chiese, ma dal 2011 – dopo l’approvazione della legge chiamata Equality Act 2010 – anche questa restrizione è caduta, e la cerimonia può svolgersi in chiesa, se ci si trova in una delle comunità religiose dove i pastori sono disponibili a celebrarla, con pieni effetti civili se essi sono riconosciuti a tali comunità per i matrimoni fra un uomo e una donna.

La parte della legge sulle «civil partnership» relativa alle cerimonie è stata oggetto di un confronto, anche nei tribunali, molto più accanito delle norme sulle pensioni o sulle proprietà. Un sociologo ne capisce facilmente il perché. Se la cerimonia di «civil partnership» è identica al matrimonio, tutti si abituano a considerare la «civil partnership» un matrimonio. Nella «civil partnership» inglese – questo era il cuore del caso Ladele discusso dalla Corte Europea – la legge non solo permetteva, ma imponeva che tutto fosse uguale al matrimonio. E di fatto – il costume seguendo e completando la legge – c’erano gli abiti bianchi, lo scambio degli anelli, la musica, la torta nuziale.

Il risultato era facilmente prevedibile anche dai non sociologi. Nel linguaggio comune, e anche sui giornali attenti a fare economia di parole, scrivere che il signor Smith e il signor Jones si sono «civil-associati» suona male e dopo un po’ viene a noia. Dire che il signor Jones è il «partner» del signor Smith non ha un significato univoco: i due potrebbero essere semplicemente soci d’affari, e l’equivoco potrebbe essere imbarazzante. Così, come si poteva prevedere, dopo pochi mesi il linguaggio ha vinto, come fa sempre, la sua battaglia contro l’ipocrisia, i media si sono adeguati, e tutti hanno cominciato a parlare e a scrivere del «matrimonio», «wedding», fra i signori Smith e Jones e del signor Jones come «marito» del signor Smith. Se i diritti e i doveri erano gli stessi del matrimonio, se la cerimonia era uguale a quella del matrimonio, se perfino la torta e gli anelli erano gli stessi perché persistere in inutili formalismi e in un linguaggio anacronistico?

Rimaneva solo il tocco finale: adeguare le leggi al linguaggio e alla realtà e cambiare il nome da «civil partnership» a «matrimonio». È quanto è avvenuto in Inghilterra e Galles con il Marriage (Same Sex) Couples Act votato dal Parlamento il 15 luglio 2013. Si prevede che la Scozia si adegui nel 2014. La legge del 2013 è molto semplice: in effetti, si trattava sostanzialmente di cambiare il nome a qualche cosa che esisteva già. Certo, i nomi hanno la loro importanza ma per pura coincidenza il 15 luglio 2013 ero, per tutt’altre ragioni, a Londra e proprio davanti al Parlamento. È vero, c’erano un po’ di manifestanti con cartelli «Thank you» per ringraziare i parlamentari per la nuova legge, ma erano pochi, portati su autobus e camion da gruppi organizzati, e attenti a farsi fotografare soprattutto da reporter stranieri. «Repubblica» in effetti ha dedicato più spazio alla legge del 2013 di molti quotidiani britannici. In Inghilterra molti erano convinti che i «matrimoni» omosessuali ci fossero già da anni.

Qualche politico nostrano potrà dire di non avere tempo per studiare che cos’è stata la «Civil Partnership» inglese, in effetti un semplice primo tempo rispetto al secondo tempo del «matrimonio» omosessuale, e un primo tempo che annunciava un secondo tempo evidente e scontato. Anche gli ecclesiastici, si sa, hanno molto da fare e qualcuno potrebbe dare retta a Renzi o a «Repubblica» quando sostengono che «civil partnership» e matrimonio sono cose diverse, diversissime, con la stessa spudoratezza con cui arruolano anche il Papa tra i sostenitori delle «civil partnership» perché, nella sua conversazione con i superiori religiosi, ha citato le difficoltà e le sfide che pone l’educazione religiosa di bambini che vivono in casa «situazioni complesse, specialmente in famiglia». Papa Francesco ha confidato una sua esperienza a Buenos Aires: «Ricordo il caso di una bambina molto triste che alla fine confidò alla sua maestra il motivo del suo stato d’animo: “la fidanzata di mia madre non mi vuol bene”». Il Papa ha detto che anche questi bambini vanno accolti, difesi, evangelizzati – nel cristianesimo le colpe dei genitori non ricadono sui figli, e ogni bambino ha diritto alla catechesi – e che, se non li si accoglie con amore, si somministra loro un «vaccino contro la fede». Ma che c’entra questo con le «civil partnership» e con Renzi, se non per mostrare il rischio che in questi contesti finiscano per vivere «bambine molto tristi»? Eppure, il ricordo della bambina triste di Buenos Aires diventa su «Repubblica» l’«apertura di Papa Francesco alle coppie gay» e il sostegno implicito a Renzi!

A noi le bambine molto tristi non piacciono. Le preferiamo allegre. E, come il Banco di Napoli, non accettiamo in pegno né tabacchiere senza valore né chiacchiere inutili. A chi ci racconta – in inglese – che la «civil partnership» è un’alternativa al «matrimonio» omosessuale che salva insieme la capra delle esigenze politiche del PD e i cavoli del disagio cattolico contro le unioni gay, rispondiamo – ancora in napoletano, che questa volta non c’è bisogno di tradurre – che «’cca nisciuno è fesso». A meno che qualcuno – tra gli oppositori, veri o presunti, del «matrimonio» omosessuale – non preferisca passare per fesso per non assumersi le sue responsabilità.

Fonte: Civil Partnership, anticamera del matrimonio gay.

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