Contro l’Isis la guerra è giusta. Da Sako nuovo appello – La Nuova Bussola Quotidiana

di Matteo Matzuzzi 10-07-2015

Più di tanti saggi socio-politologici infarciti di dati, più di estenuanti articolesse che propiziano l’abbiocco e più di innumerevoli dichiarazioni cucite in diplomatichese stretto, per farsi un’idea di cos’è lo Stato islamico basta leggere il libro Più forti del terrore. I cristiani del Medio Oriente e la violenza dell’Isis. Edito da Emi, è un piccolo volume di 144 pagine scritto dal patriarca di Babilionia dei caldei, Louis Raphael I Sako.

Uomo di pace e convinto sostenitore del dialogo interreligioso (quello genuino e concreto), il capo della Chiesa caldea di Baghdad non usa troppi sofismi per definire l’orda nera che si sta abbattendo sulla piana di Ninive e minaccia sempre più concretamente di propagarsi ai territori limitrofi: «Lo Stato islamico si è adattato, si insinua e propaga nelle città, non si sposta più con una grande colonna di veicoli come aveva l’abitudine di fare». Sako ricostruisce come tutto è iniziato, la notte tra il 17 e 18 luglio di un anno fa: «Alcuni pick-up muniti di altoparlante hanno circolato nei quartieri cristiani annunciando un ultimatum, e degli uomini hanno distribuito un volantino che spiegava lo stesso messaggio: i cristiani dovevano convertirsi all’islam, pagare la jizya, la tassa, lasciare la città (senza prendere nulla con sé) prima di mezzogiorno del 19 luglio o essere decapitati».

Il volantino, chiarisce il patriarca, aggiungeva anche un monito che non aveva bisogno di interpretazioni o traduzioni: «Fra voi e noi, non ci sarà che la spada». É’ bastato questo, naturalmente, per dare avvio al grande esodo: «Sono partiti tutti. Quelli che hanno cercato di portarsi via delle cose sono stati sistematicamente derubati ai checkpoint all’uscita della città. I jihadisti hanno perfino strappato gli orecchini alle donne e hanno perquisito gli uomini. A coloro che volevano resistere, minacciavano di rapire le mogli e le figlie. Molti hanno dovuto abbandonare Mosul a piedi, nel caldo opprimente del mese di luglio in Iraq. Senza niente, quasi nudi».

Impossibile, a suo giudizio, trovare un punto di mediazione, visto che i membri di quel gruppo hanno subito una sorta di “lavaggio del cervello”. Per Sako, si tratta di uomini «molto chiusi. Sono contro la cultura, contro il pluralismo. Distruggono tutto, fanno tabula rasa. Vogliono fare il loro Stato islamico a partire dal niente. La sharia che sostengono è per loro una legge divina. É nel nome di Dio che agiscono. É Dio che ordina loro di fare tutto ciò. É Dio la posta in gioco. Questo è terribile». Sono evidenti e nitidi anche gli obiettivi che lo Stato islamico si ripromette di realizzare: «Vuole svuotare non solamente l’Iraq, ma anche tutto il Medio Oriente dalla componente cristiana, che è molto importante. Il nostro problema è che qui siamo assimilati all’Occidente. Molti musulmani pensano che è da qui che provengono tutti i loro mali» E l’odio per i cristiani c’è: i combattenti dell’Isis «ritengono che i cristiani, con la loro libertà, con i loro costumi, siano fastidiosi. Si guardino le ragazze cristiane vestite in jeans e senza velo. Una giovane musulmana, secondo loro, non può vestirsi così».

Come fermare tutto questo è la domanda che si pongono molti, sia in Occidente sia negli ambienti della Chiesa. «La comunità internazionale deve intervenire per proteggere le minoranze, per liberare i loro villaggi e permettere agli sfollati di tornare a casa. I raid aerei condotti dalla comunità internazionale hanno forse frenato l’avanzata dei jihadisti in alcuni luoghi, ma ciò non basta». E quel che serve è «avere una forza di terra. In queste circostanza fare la guerra è legittimo, lo stesso papa Francesco l’ha ricordato. É legittima difesa». Importante è poi quanto il patriarca scrive in merito alle prese di posizione della comunità musulmane. «Condanne un po’ timide», sentenzia subito. E ricorda l’incontro con l’ayatollah Sistani, la massima autorità scita irachena: «Gli ho chiesto di parlarne pubblicamente, di pubblicare una fatwa. Mi ha risposto: “Non mi ascolteranno, come i cristiani non ascoltano il Papa”». Il problema, mette nero su bianco Sako, è che «tutti i musulmani dicono che l’Isis non rappresenta l’islam, che il Fronte al Nusra non rappresenta l’islam, che al Qaida non rappresenta l’islam. Ed è vero, chiaramente. Ma queste ideologie perpetrano i loro crimini nel nome dell’islam e della sua purezza». Ecco perché, insomma, si fa fatica a comprendere la timidezza delle condanne.

Che le autorità islamiche siano apparse “timide” in riferimento all’avanzata jihadista, lo ha rilevato anche Shlemon Warduni, che di Sako è vescovo ausiliare. «I musulmani moderati devono reagire alla follia distruttrice dello Stato islamico e cercare di interagire con tutta la popolazione e di collaborare con il resto della società. Solo così possono fare il bene comune, il bene di tutta la gente e quindi anche il loro bene», ha detto Warduni in un intervento ripreso pressoché integralmente dall’Osservatore Romano del 6-7 luglio. Il presule ritiene che l’unico modo per fermare i jihadisti consista nella «reazione dei sunniti moderati. Quelli che sono contrari al dialogo fanno il male di tutti, per questo è determinante il ruolo dei musulmani moderati». A questo proposito, è utile citare due passaggi del consueto messaggio inviato lo scorso giugno dal Pontificio consiglio per il Dialogo interreligioso ai fedeli musulmani in occasione del mese sacro di ramadan.

Nel documento firmato dal cardinale Jean-Louis Tauran si mette il dito nella piaga, e cioè nel sistema educativo che sovente sforna potenziali militanti fondamentalisti. «Non può esserci alcuna ambiguità nell’educazione. Il futuro di una persona, di una comunità e dell’intera umanità non può essere costruito su tale ambiguità o verità apparente», si legge. E ancora: «Tutti coloro che sono coinvolti nell’educazione dei giovani e nei vari ambiti educativi dovrebbero insegnare il carattere sacro della vita e la dignità che ne deriva per ogni persona, indipendentemente dalla sua etnia, religione, cultura, posizione sociale o scelta politica. Non c’è una vita che sia più preziosa di un’altra per motivo della sua appartenenza ad una specifica razza o religione. Dunque, nessuno può uccidere. Nessuno può uccidere in nome di Dio; questo sarebbe un doppio crimine: contro Dio e contro la persona stessa».

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