«Credere di credere». Vattimo tra ragione e fede | Cristiani.info

Nel 1996 con il libro Credere di credere Vattimo ufficializzava la sua svolta religiosa. Ma perché e con quale esito il principale teorico del pensiero debole (una filosofia nemica dichiarata della Verità e degli assoluti) ritorna al cristianesimo? Se ne discute in un dibattito ospitato dal “Giornale di filosofia della religione” (Aifr.it). Proponiamo qui un estratto del primo contributo, a firma di Michele Turrisi («Credere di credere»: genesi e significato di una conversione debole). Segue la “reazione” di Pierfrancesco Stagi (studioso cattolico, allievo del filosofo torinese). di Michele Turrisi

Cosa non è il cristianesimo ritrovato di Vattimo

[…] Cominciamo col dire che il teorico del pensiero debole non ha avuto nessuna folgorazione sulla via di Damasco, sia nel senso di una improvvisa e miracolosa conversione, sia nel senso di una nuova travolgente esperienza di fede. Nessun “dono” dall’alto; nessuna “grazia” particolare. In realtà Vattimo c’è nato e cresciuto dentro, alla fede cristiana [1]. Parlando delle proprie origini religiose, Vattimo pensa innanzitutto alla fede semplice e genuina trasmessagli dalla madre (la quale da bambino lo aveva consacrato a Don Bosco). Racconta di aver fatto il chierichetto; di aver frequentato attivamente la parrocchia (dove, insieme a quello religioso, si forma anche il suo interesse sociale e politico); di aver militato nell’Azione Cattolica, diventandone pure dirigente. Fondamentale, negli anni dell’adolescenza, è stata la guida di confessori e direttori spirituali, e specialmente di uno di questi, che è stato tra l’altro il suo maestro personale (un «ultra-tomista», «forse la persona che più mi ha cresciuto»). Ancora liceale, Vattimo organizzava incontri sull’Umanesimo integrale di Maritain. Faceva anche prediche nelle parrocchie di campagna. Andava a confessarsi regolarmente, seguiva gli esercizi spirituali, recitava il rosario… (tutte pratiche che il giovane Vattimo ha osservato sino alla fine dell’università). E da buon cattolico militante — lo rivela candidamente egli stesso — provava disprezzo per i credenti poco zelanti (in ossequio al severo giudizio biblico sui «tiepidi» [2]). All’università — ma anche dopo — il suo grande maestro è stato Luigi Pareyson, «cattolico fino al midollo» (i due lavoreranno molto insieme e saranno amici per tutta la vita) [3].

Abbiamo voluto richiamare questi fatti del passato intellettuale e religioso di Vattimo appunto per sottolineare come ben prima del 1996 — data di pubblicazione del libro-testimonianza Credere di credere — egli avesse già avuto modo di sperimentare la fede, coltivare la devozione religiosa e approfondire le verità cristiane. Inoltre, tener conto di queste precedenti esperienze del filosofo serve a comprendere meglio quanto sia “anomalo” — oltre che lontano dall’ortodossia — il suo ritorno al cristianesimo: è vero che dopo una lunghissima fase [4] di — per usare un’espressione teologica — “incredulità positiva” egli ha ripreso a parlare di fede e di religione; ma ciò non ha — nel modo più assoluto — comportato un ritorno al Dio conosciuto e adorato in gioventù, né una rinnovata sottomissione al magistero della Chiesa…

NOTE

[1] Più propriamente: alla fede cristiana cattolica. Nel presente lavoro, tuttavia, non sempre si è ritenuto necessario fare questa precisazione. Anzi, il più delle volte è sembrato superfluo: non tanto perché i termini cristiano e cattolico — almeno da noi — sono tradizionalmente intesi come sinonimi (comunemente, persino il termine credente indica chi professa il cattolicesimo), quanto perché i contenuti del messaggio evangelico sui quali verte la riflessione di Vattimo sono unanimemente “affermati” da tutte le confessioni cristiane.

[2] La Bibbia infatti afferma che Dio è disgustato fino alla nausea dalla condotta dei credenti che non sono «né freddi né ferventi»: cfr. Apocalisse, cap. 3, vv. 14-16. Eppure — paradossalmente — Credere di credere sarà un discorso a favore di questa categoria, quella cioè dei «mezzo credenti», tra i quali oggi Vattimo serenamente si annovera.

[3] Cenni di tali esperienze e incontri sono “disseminati” in vari libri e interventi di Vattimo (da Credere di credere a Vocazione e responsabilità del filosofo a Dopo la cristianità. Per un cristianesimo non religioso – tutti già citati; particolarmente utile in proposito è l’intervista «Vattimo-Quinzio: il Dio che cerchiamo», a cura di C. Altarocca, cit.). Un ricordo più “ordinato” si trova nella recente autobiografia Non essere Dio, cit.

[4] Vattimo aveva circa venticinque anni quando, per ragioni sia filosofiche che personali (su cui ci soffermeremo più avanti), ha abbandonato la Chiesa e ogni pratica religiosa; ne aveva sessanta quando ha pubblicato Credere di credere.

[per il testo integrale: http://www.aifr.it/pagine/notizie/031.html]

Il commento di Pierfrancesco Stagi

Ho letto e apprezzato l’articolo di Michele Turrisi sulla fede di Vattimo. Ne ho apprezzato la precisione dei riferimenti e l’articolazione “onesta” della ricostruzione, anche se non ne condivido in pieno le conclusioni. Il discorso è naturalmente molto ampio ma si possono sollevare un paio di questioni almeno.

Con onestà Turrisi osserva alla fine del suo articolo: in fondo in che cosa crede Vattimo? Non è una domanda troppo diretta, anzi come egli ben sa nelle cose di fede vale il “sì sì ed il no no”. Ed è giusto così. Si può credere nella caritas? Che fede è una fede fondata sulla caritas? In che cosa crede chi crede nella caritas? Vattimo (mi) racconta spesso di pregare con i “Salmi”, anche se io sono stato sempre convinto che egli preghi i “Salmi”. E la differenza è notevole. I “Salmi” narrano di esperienze umane, storiche. Pregando i Salmi, Vattimo ripercorre, rivive queste esperienze umane e storiche. Ne diventa partecipe, compassionevole testimone. “Crede” alla veridicità di queste esperienze, anche se poi è convinto che esse in fondo non rivelino niente altro che se stesse (o almeno ciò di cui sono esperienza). I “Salmi” però spezzano queste esperienze, le frantumano, quando invocano Dio e lo chiamano a testimone delle sofferenze dell’uomo universale. Quando Dio compare nei “Salmi” libera l’ebreo orante dalla sua finitezza, lo salva. Il “Salmo” si interrompe ed inizia per l’ebreo la contemplatio Dei, come dice Guigo II nella sua Scala Claustralium. Il “Salmo” è la scala che attraverso i quattro gradi: la lectio, la meditatio, l’oratio e la contemplatio conduce a Dio. Vattimo non vuole salire questa scala e rimane a terra, prigioniero della sua storicità. Pareyson e Givone, così come anche Ciancio, glielo hanno sempre — e a ragione — rimproverato. Vattimo crede alla storia e “prega” la storia. Di più, prega quel telos che vede all’opera nella storia, che è un telos di liberazione. Ancora di più, riconosce che quel telos deriva dal cristianesimo, ma lì si ferma. Non riconosce, e mai lo farà (credo), che Cristo spezza la storia, la frantuma. Allora sì, sulle rovine della storia, che si potrà parlare di caritas, del prossimo, che è in fondo ciò che rimane dopo che Cristo ha distrutto ciò che è soltanto ed esclusivamente umano, ad iniziare dalla storia (allora sì sarà: caritas in veritate!). Perché Vattimo non inizia a salire la scala di Guigo, dico, anche solo inizia a salire? Perché rimane legato al suo maestro Heidegger, ma anche Gadamer. Perché rimane legato all’essere (o al linguaggio, che dir si voglia), quella parola che ci dà per un attimo l’illusione della liberazione ma che parla sempre, ancora e solo, della disperazione della finitezza.

[http://www.aifr.it/pagine/notizie/032.html]

Fonte: «Credere di credere». Vattimo tra ragione e fede | Cristiani.info.

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