Cristiani etiopi: persecuzioni in Arabia Saudita e demolizioni dei monasteri in patria

L’ortodossia etiope è attaccata, nella sua realtà ecclesiale, tanto da nemici esterni e dichiarati, come le autorità saudite, quanto dallo stesso regime guidato da Meles Zenawi

Raffaele Guerra

L’attenzione deve andare innanzitutto ai trentacinque cristiani etiopi arrestati lo scorso 15 dicembre in Arabia Saudita con l’accusa di “riunione illecita di persone non sposate di sesso opposto”. Il blitz della polizia saudita è avvenuto mentre il gruppo di etiopi era riunito per la preghiera in un’abitazione di Jeddah durante la Quaresima del Natale. Situata sulla costa del Mar Rosso, Jeddah è il maggiore centro urbano saudita dopo la capitale Riyadh: luogo di massiccia immigrazione da tutte le parti del mondo e dall’Africa in particolare. Crocevia multietnico per composizione  demografica, Jeddah rimane comunque un forte centro di cultura islamica: è infatti la principale porta di accesso alla Mecca e Medina. Dei trentacinque arrestati, ventinove sono donne che, secondo le dichiarazioni di Human Rights Watch e altre O.N.G., sono state sottoposte a molestie e perquisizioni corporali del tutto arbitrarie. Sempre secondo le fonti internazionali, gli uomini del gruppo, invece, sono stati trattenuti per due giorni nella stazione di polizia di al-Nuhza, a Jeddah, per poi essere trasferiti nel carcere di Buraiman. Gli etiopi hanno dichiarato per via telefonica che dopo circa dieci giorni dall’arresto alcuni di loro sono stati portati in tribunale dove hanno firmato con le proprie impronte digitali alcuni documenti, senza poterli leggere.

L’accusa formulata trova un diretto fondamento nel codice civile saudita. Shaikh Ibrahim al-Ghaith, presidente della Commissione per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio, in altri termini la polizia confessionale saudita, ha dichiarato a Human Rights Watch: “La riunione di persone di sesso diverso è proibita in pubblico, ma permessa in privato a meno che non abbia finalità di corruzione”. In Arabia Saudita, infatti, è vietata qualsiasi manifestazione pubblica di carattere religioso al di fuori del circuito islamico; sono permesse, però, riunioni di preghiera in case private. Eppure quella degli arrestati, in realtà, una riunione di preghiera in un luogo privato.

Il caso è stato al centro di un’interrogazione all’europarlamento presentata lo scorso 2 aprile dal gruppo del PPE, e lo stesso capo della diplomazia europea Catherine Ashton ha dichiarato, nella risposta, di essere pienamente consapevole dell’accaduto. Ad ogni modo, la vicenda è ora seguita dalla delegazione diplomatica europea a Riyadh, in collaborazione con le ambasciate degli stati membri.

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