Cristiani in Siria, oggi

Nella guerra civile in cui – di fatto – è precipitata la Siria, i cristiani si trovano tra l’incudine e il martello. Le vittime degli sconvolgimenti politici iniziati poco più di un anno fa sono circa settemila (stima Onu), numeri di un vero conflitto armato che non risparmia nessuno se, come sembra, ci sarebbero centinaia di minori uccisi. Il processo di riforme interne, morto sul nascere, è stato soppiantato da una repressione feroce, mentre l’opposizione assume sempre più i caratteri della lotta armata che emargina i nonviolenti.

La Siria, incredibile crocevia da almeno cinque millenni, si ripropone come una società tra le più complesse, che per la sua configurazione etnoreligiosa e la sua posizione strategica diventa oggetto di scontro tra le potenze, secondo dinamiche che ricordano logiche antiche.

Su 22 milioni di abitanti, i cristiani – perlopiù ortodossi e cattolici distribuiti in oltre una decina di Chiese diverse – sono il 7-8%, una presenza tra le più consistenti nei Paesi della regione. Appartengono da sempre al tessuto sociale del mondo arabo. Quasi tutti, tranne gli armeni e i siriaci fuggiti alle persecuzioni ottomane e gli abitanti di qualche villaggio che ha conservato l’aramaico, parlano arabo nella vita quotidiana. Vivono su una terra che chiaramente sentono propria, in maggioranza islamica da tredici secoli e dove hanno intrecciato continue forme di dialogo con l’islam. Hanno partecipato al progresso della società locale e anche in tempi recenti alcuni di essi hanno occupato posizioni di primo piano, come ai vertici militari o della Banca centrale.

La libertà religiosa ha trovato i suoi spazi nella cornice arabo-nazionalista data dal partito Ba’aht. Il collante del regime non è stato il Corano, ma l’adesione di massa ad altre parole d’ordine: lotta a Israele, con cui può sempre scoppiare una guerra per il Golan occupato; difesa della causa palestinese; indipendenza e dignità nazionale contro l’Occidente. L’islam politico organizzato, soprattutto come Fratellanza musulmana (sunnita), è stato bandito completamente, come sanno bene i sopravvissuti alla carneficina di Hama, la città ribelle bombardata trent’anni fa. Per anni il sospetto di essere una spia israeliana o un fratello musulmano è stata la via più diretta per il patibolo.
Più che le appartenenze religiose, nel sistema-Assad, cementato dalla forza repressiva, hanno contato i legami e le conoscenze personali. L’onda di proteste contro questo regime laico ma brutalmente dittatoriale che dura da più di quarant’anni nasce perciò da una crisi interna al sistema.
Gli Assad sono originari della costa dove si concentrano gli alauiti e sono espressione di questo gruppo minoritario legato all’islam sciita. Appoggiandosi a tutte le minoranze, hanno costruito il controllo su un Paese che è per tre quarti abitato da musulmani sunniti. «Come la maggioranza dei siriani, anche i cristiani hanno subìto la cancellazione del pensiero politico, soggetti tutta la vita al martellamento della propaganda, alle leggi di emergenza, all’attenzione sempre rivolta al nemico esterno», osserva un religioso cattolico di rito orientale originario della zona costiera. Ciò nonostante, i cristiani nella mentalità comune sono spesso associati a interessi stranieri. E i loro giovani, appena si presenta un’opportunità di emigrazione partono verso il «nemico» Occidente, che è la meta più ambita. Così le comunità si riducono.

GERARCHIE SCHIERATE
Oltre all’emigrazione dei propri fedeli, le gerarchie delle diverse Chiese temono l’affermazione di un islam politico. Così si sono sbilanciate a favore del regime. Il patriarca siriaco cattolico, Ignatius Joseph III, in gennaio ha condannato l’Occidente per l’appoggio alle proteste. L’arcivescovo melchita di Aleppo, monsignor Jeanbart, ha criticato le posizioni antiregime dei media occidentali. Contro i «dimostranti terroristi», si è detto l’arcivescovo siriaco cattolico di Damasco, Gregorios Elias Tabé. Ancora più esplicita la posizione degli ortodossi di Antiochia che sono il gruppo più numeroso: con la benedizione di una visita del patriarca di tutte le Russie, Kirill, lo scorso novembre si sono messi sotto l’ala di Assad. Clamoroso anche l’incondizionato sostegno al regime di Agnès-Mariam de la Croix, superiora di un monastero greco-melchita, schierata in modo acritico dalla parte della repressione.
«Abbiamo vissuto per quarant’anni sotto la paura, è normale che la prudenza sia forte nelle persone, se non hanno davanti alternative convincenti – spiega un religioso maronita, che non a caso chiede l’anonimato -. È faticoso ricominciare a pensare politicamente». Ma se le Chiese ufficiali non lasciano i fedeli liberi di fare una scelta politica seguendo la voce della propria coscienza, come si comportano i cristiani, soprattutto i giovani?
Alcuni non accettano di piegarsi sulle posizioni del regime. Rappresentano piccoli numeri, poche centinaia tra Damasco e le principali città, agiscono segretamente. Hanno appoggi dagli emigrati in Occidente e alcuni sperano in un intervento armato occidentale. Anche il Consiglio nazionale siriano, che guida le proteste dalla Turchia ed è espressione dell’opposizione sunnita, vorrebbe averli dalla propria parte, come canale per favorire un intervento internazionale. Ma oggi essere identificati come agenti di potenze esterne è visto dai più come un altro pericolo da scongiurare.

LA TERZA VIA
I cristiani si trovano di fronte al dilemma tra l’opposizione al tiranno presente e la paura per l’estremismo islamico che potrebbe affermarsi in futuro. Il fondamentalismo islamico di matrice salafita o wahabita è stato finora marginale, ma nella violenza si rafforza, e lo scontro tra sunniti e alauiti dà spazio agli estremisti. Il superiore dei gesuiti del Medio Oriente, Victor Assouad, solleva una domanda generale: «Non stiamo assistendo, attraverso le primavere arabe, all’avvento di regimi islamici fanatici piuttosto che alle democrazie e al pluralismo promessi?». I cristiani siriani considerano inaccettabili certe dichiarazioni dei salafiti, perché sono abituati a vivere in uno Stato che protegge gli edifici religiosi e consente il culto. La paura si specchia in due esperienze molto vicine: i quindici anni di guerra civile in Libano, Paese con cui i legami sono strettissimi, e, più di recente, il disastro iracheno che ha spinto tanti rifugiati a riparare proprio nelle periferie di Aleppo e Damasco (cfr Popoli 1/2011, Iraq-Siria: Cristiani in fuga, sulle orme di Abramo). In meno di un decennio i cristiani rimasti in Iraq sono scesi da 1,5 milioni a circa 300mila.
Tra dittatura ed estremismo islamico, la terza via nonviolenta delle riforme sembra farsi assorbire dallo scontro e molti cristiani impegnati vengono emarginati. Un esempio: a Damasco, dopo che il governo aveva autorizzato manifestazioni pacifiche, giovani cristiani hanno tentato di organizzare una veglia silenziosa per i caduti di tutte le parti in conflitto. Prima le autorità li hanno ostacolati in ogni modo, poi, quando alla fine la veglia si è svolta con centinaia di partecipanti, questi sono stati aggrediti dai fiancheggiatori del regime.
Qualunque sia la sua forza, reale oppure propagandata da un sistema di informazioni senza mai certezze, il peso dell’estremismo musulmano mette paura. Ma sorgono domande anche di altro tipo sulle conseguenze della posizione dei chierici. «I cristiani si sono esposti troppo a favore del regime – osserva il religioso di rito orientale – e per questo rischieranno in futuro di pagare doppiamente. Il nostro atteggiamento deve nascere dal Vangelo, che dice che la mia libertà sociale, politica e religiosa non può essere fondata sull’ingiustizia contro gli altri, chiunque essi siano». Ancora più netto è un j’accuse a firma di un giovane gesuita siriano apparso su un giornale libanese: «Nessuno dei nostri preti ha il coraggio di pararsi davanti ai servizi di sicurezza per ripetere il comandamento di colui che non muore: “Non uccidere”».

NONVIOLENZA ATTIVA
Dal monastero di Mar Musa, dove rischia ogni giorno l’espulsione, il gesuita Paolo Dall’Oglio insiste nel proporre soluzioni nella linea che da sempre ispira la sua missione ecumenica e di dialogo con l’islam. «La società globale deve essere in grado di operare efficacemente in una logica di nonviolenza attiva – ci spiega -. Sto chiedendo che vengano in Siria 50mila accompagnatori della società civile mondiale, come gli operatori della Croce rossa, gli scout, o membri della Non violent Peaceforce, che facciano da cuscinetto tra contendenti. Devono essere tanti, più dei militari, e operare su richiesta delle popolazioni locali per garantire il rispetto dei diritti umani». Questa massa operativa servirebbe a monitorare il territorio, far passare gli aiuti, consentire i corridoi umanitari.
Come molti, padre Dall’Oglio si domanda perché il Vaticano non abbia ancora giocato le sue carte nella mediazione. Quasi tutte le fazioni in Siria gli riconoscono sufficiente imparzialità per assumere un’iniziativa, potrebbe offrire la disponibilità di ospitare un dialogo, cercare nuovi canali sia dentro la Siria, sia tra protagonisti cruciali come la Russia e l’Iran, i cui interessi corrispondono alla sensibilità di minoranze importanti come gli ortodossi e gli alauiti. «Se è vero che questa corrispondenza tra interessi geostrategici regionali e la sensibilità comunitaria – spiega il gesuita – può portare alla frantumazione del Paese, può però anche condurre a un nuovo contratto di unità nazionale».
Lo spera tenacemente chi tra i cristiani non si rassegna alle logiche violente. Ma la costruzione di una nuova base per lo Stato richiede di tenere conto di mille interessi. Per essere considerata neutrale, una proposta cattolica di mediazione deve escludere l’opzione dell’intervento armato esterno, riconoscere che gli ortodossi sono la maggioranza tra i cristiani, lavorare per i diritti delle minoranze senza che le maggioranze si sentano umiliate. Per padre Dall’Oglio la formula è una democrazia dei due terzi, in cui le scelte essenziali siano ampiamente condivise: «È importante che i cristiani non interrompano i rapporti di solidarietà con la maggioranza dei concittadini, con il rischio di chiudersi in ghetti che li costringono a vivere sulla difensiva».
Riconciliazione e negoziato, sono le parole dei cristiani non schierati nel conflitto. «L’appartenenza a un gruppo non può motivarmi più del Vangelo – osserva il già citato religioso maronita -. Dobbiamo essere un ponte, che si appoggia a entrambe le sponde. Anche se può voler dire essere calpestati».

Francesco Pistocchini

Fonte: Popoli.

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