Crocifissioni, oggi in Siria domani in Italia – La Nuova Bussola Quotidiana

06-05-2014 – Valentina Colombo

Le crocifissioni a Raqqa, le cui atroci immagini sono rimbalzate in questi giorni su tutti i mezzi di comunicazione, trovano spiegazione nel versetto 33 della sura coranica La tavola imbandita, che recita: «La ricompensa di coloro che fanno la guerra ad Allah e al Suo Messaggero e che seminano la corruzione sulla terra è che siano uccisi o crocifissi, che siano loro tagliate la mano e la gamba da lati opposti o che siano esiliati sulla terra: ecco l’ignominia che li toccherà in questa vita; nell’altra vita avranno castigo immenso».

La traduzione è di Hamza Roberto Piccardo, curatore dell’edizione italiana del Corano con la “Revisione e controllo dottrinale dell’Unione delle comunità ed Organizzazioni Islamiche in Italia” (Ucoii) pubblicata dalla Newton Compton. È sempre Piccardo ad illustrare nel commento a piè di pagina, alla nota 28, il contenuto del versetto: «Questo versetto indica la pena che la shari’a commina a coloro che in modo organizzato, cosciente e reiterato, compiono atti criminali contro la società islamica, genocidio o anche solo brigantaggio, rapina a mano armata, sequestro di persona a fine di riscatto. Il versetto prevede anche una graduazione della sanzione in base alla gravità della colpa commessa ed è comunque previsto (vedi vers. 34) che coloro i quali si pentono, si ravvedono e sono disposti a riparare al male compiuto possano essere perdonati dall’autorità (fermo restando il contenzioso con le vittime delle loro imprese che viene regolato in base alla normativa relativa all’omicidio e a quella delle lesioni volontarie)».

Colpisce che siffatto commento si trovi, senza alcuna edulcorazione e senza alcuna contestualizzazione, in un Corano che è tra i più venduti in Italia, ma al contempo chiarisce anche che la crocifissione è una pena prevista dal diritto penale islamico sia per i credenti che per i non credenti.

Non a caso al collo di uno dei due uomini condannati a Raqqa, entrambi musulmani, è stato appeso un cartello con la scritta: «Costui ha combattuto i musulmani e ha fatto scoppiare un ordigno [rudimentale] in questo luogo». Il reato commesso quindi è quello di essersi contrapposto alla società islamica, in questo caso allo Stato islamico.

A Raqqa, denominata la “Kandahar siriana”, è in atto dal marzo 2013 una lotta per la conquista del potere tra i due principali raggruppamenti jihadisti – Jabhat al-Nusra e lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante. Se nel marzo 2013 era stata Jabhat al-Nusra a cacciare le forze legate ad Assad, già nel maggio 2013 lo Stato islamico aveva preso il controllo della città instaurandovi la sede del “distretto di Raqqa” governato da un emiro. Da quel momento gran parte della popolazione cristiana, che rappresentava il 10% della popolazione, ha abbandonato la città.  Nel dicembre 2013 la Chiesa armena dei martiri è stata occupata e trasformata, dopo che al posto della croce sul tetto è stato issato il vessillo nero dei jihadisti, nella sede della predicazione del gruppo.

Nel febbraio 2014 lo Stato Islamico di Siria e del Levante ha posto ai pochi cristiani rimasti delle regole che ricalcano il cosiddetto patto di Omar – citato anche nello Statuto di Hamas – in base al quale non solo i cristiani non devono costruire nuovi monasteri, chiese o conventi nelle città e nelle zone circostanti, non devono impedire ai loro parenti di convertirsi all’islam qualora lo desiderino, non devono vestirsi come i musulmani, non devono chiamarsi con nomi musulmani, non devono esporre il crocefisso né nessun loro libro sacro innanzi ai musulmani; ma devono versare la tassa di capitazione (la jizya) per ottenere la “protezione” dello Stato islamico.

In questo contesto, in cui i cristiani sono ridotti di numero, ma soprattutto ridotti in semi-schiavitù,  le due recenti crocifissioni rientrano invece nella faida tra Jabhat al-Nusra e lo Stato Islamico. Non è infatti un caso che il 2 maggio Ayman al-Zawahiri abbia inviato un messaggio rivolto alle due fazioni sunnite jihadiste per invitarle a evitare i combattimenti e le uccisioni fratricide per concentrarsi contro i veri nemici, ovvero gli sciiti e il regime di Assad.

Ebbene, tutto ciò conduce a una riflessione. Innanzitutto la crocifissione è, in base al versetto coranico citato, parte integrante del diritto penale islamico con sfumature a seconda della scuola giuridica. Le crocifissioni a Raqqa sono solo l’immagine più barbara di questa istituzione, praticata da bande sanguinarie che vogliono reinstaurare il califfato islamico. Tuttavia va rammentato che questa pratica è attualmente in uso in alcuni Stati islamici.

In Iran l’articolo 195 del Codice penale che riguarda il mohareb, parola persiana che corrisponde all’arabo muharib, termine usato nel cartello di uno degli uomini crocifissi a Raqqa, recita: «L’esecuzione di un mohareb sarà eseguita come segue: a) il metodo usato per legarlo/a non uccide; b) lui/lei non deve restare crocefisso per più di tre giorni, ma se muore prima dei tre giorni può essere tolto/a dalla croce; c) se sopravvive ai tre giorni non deve essere ucciso; d) amputazione della mano destra e del piede sinistro va effettuata come per il reato di furto».

Si comprende quindi che la crocifissione non è intesa come la crocifissione di Cristo con i chiodi volta a causare una morte più rapida, bensì come esposizione sulla pubblica piazza del reo che è destinato a una morte lenta e più atroce. In Arabia Saudita nel maggio 2013 cinque yemeniti, accusati di furto a mano armata, sono stati decapitati e poi i loro corpi crocifissi, ovvero, come è d’uso in Arabia Saudita, appesi ed esposti al pubblico per tre giorni. Quindi qui la crocifissione è solo un atto successivo alla condanna a morte.

In Sudan l’articolo 168 del Codice penale prevede la crocifissione dopo la pena capitale non solo per il furto a mano armata, ma anche per il reato di apostasia. Ebbene, la conferma della islamicità della crocifissione per il reato di apostasia viene dalle parole di Yusuf al-Qaradawi, teologo di riferimento dei Fratelli musulmani e presidente del Consiglio Europeo per la Fatwa e la Ricerca con sede a Dublino, che in un’intervista (clicca qui) ha dichiarato che l’islam è sopravvissuto solo grazie alla pena di morte prevista per l’apostasia e che citando il versetto 33 della sura La tavola imbandita ha detto che «secondo la narrazione di Abu Qulaba questo versetto si riferisce agli apostati» per proseguire affermando che numerosi detti di Maometto prevedono la pena di morte per chi abbandona l’islam.

La riflessione cui deve condurre l’aberrante visione delle crocifissioni in Siria è che non si tratta di un fenomeno relegato al jihadismo, ma che ancora oggi esistono stati che la praticano ufficialmente e, ultimo ma non meno importante, che vi sono predicatori islamici che non solo parlano dalle televisioni satellitari arabe e che quindi influenzano milioni di musulmani, ma che agiscono in Europa e che sono alla base di interpretazioni del testo coranico che finiscono nelle mani di curiosi, di credenti e soprattutto di convertiti che non hanno una conoscenza tale dell’arabo per potere leggere il testo in lingua originale.

Le immagini delle crocifissioni a Raqqa devono ricordare alle istituzioni internazionali che sono il frutto di una interpretazione rigida e fossilizzata del testo coranico, un’interpretazione che ne rifiuta la contestualizzazione e la storicizzazione e che quindi pretende che regole stabilite nel VII secolo dopo Cristo siano ancora valide nel XXI secolo. Le crocifissioni di Raqqa sono paradigmatiche dell’esito di un’interpretazione istituzionalizzata in paesi come l’Iran, il Sudan e l’Arabia Saudita, ma i cui predicatori circolano attraverso la rete, attraverso le loro pubblicazioni e anche personalmente anche in Occidente. Non è forse un caso che migliaia di europei siano partiti a combattere il jihad in Siria, proprio tra le fila delle fazioni rivali che stanno crocifiggendo quelli che, secondo i loro parametri, sono «coloro che fanno la guerra ad Allah».

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