Essere cristiani in terra d’islam

Autore:Luca Costa

Nato musulmano, Padre Paul-Élie CHEKNOUN convertito al cristianesimo e divenuto sacerdote, racconta a LeFigaro quanto sia difficile essere cristiani in terra d’islam.

Questo articolo è la traduzione di un’intervista pubblicata il 18 marzo 2018 su LeFigaro: Père Cheknoun: “nous avons un grand phénomène de conversions au Christianisme en Algérie”, di Jean-Marie Guénois

Sono rari, uomini e donne nati in seno all’islam, a osare abbandonare la fede musulmana per abbracciare il cristianesimo. Padre Paul-Elie Cheknoun, 44 anni, è uno di questi.
Cosciente del fatto che l’islam non tollera la libertà di coscienza né la libertà di religione e che condanna l’apostasia con la morte, Paul-Elie era uno dei 3 testimoni invitati la settimana scorsa in Francia dall’AED (l’associazione Aide à l’Église en Détresse) in occasione della Quaresima 2018.
Sempre prudente nelle sue dichiarazioni, Padre Cheknoun vuole difendere e proteggere la sua missione evangelica, pur accettando di raccontare il suo percorso ai giornalisti di LeFigaro

LE FIGARO. – Padre, come è avvenuta la sua conversione al cristianesimo?

Padre Paul-Élie CHEKNOUN. – Sono nato e cresciuto in una famiglia musulmana. Tuttavia, ero ancora molto giovane quando ho sentito nascere in me una grande delusione nei confronti degli insegnamenti coranici, ero deluso da ciò che il corano dice di Dio. Il Dio dell’islam è un Dio lontano, molto lontano, che non si lascia avvicinare. Come se esistesse solamente per punirci quando trasgrediamo le leggi coraniche. Quello che mi disorientava e che non riuscivo ad accettare era vedere che tutto, nell’islam, è costruito sulla paura del castigo. Sempre queste minacce: “non fare questo, non fare quello, altrimenti la mano onnipotente di Dio si abbatterà su di te per punirti”.
Un’altra cosa mi colpiva enormemente: il ruolo, il destino della donna. Umiliata, considerata come un semplice oggetto, al servizio dell’uomo, vittima della poligamia. Un ultimo motivo: la condotta morale del profeta, la vita di Maometto che non accettavo come esempio da seguire.

La morte di mia sorella, che aveva solo 28 anni e che amavo moltissimo, mi ha scosso profondamente. Questo vuoto, questo dolore, mi hanno condotto a ribellarmi contro questo Dio dell’islam cui ero confrontato.
E così ho perduto la fede.
Un giorno, era il 1999, un amico mi ha fatto incontrare una comunità evangelica, clandestina ovviamente. Il pastore mi ha annunciato, direttamente, apertamente, la morte e la resurrezione di Gesù per noi, per i nostri peccati, e questo mi ha toccato, ha riacceso qualcosa in me. Ho sentito che Cristo mi parlava, un Dio che voleva dirmi che mi amava, che mi voleva bene. Per la prima volta nella vita mi sono sentito amato da Dio. La paura, il timore si erano trasformati in amore. Ho pianto, pianto di gioia! Ero diventato cristiano.

Perché da evangelico siete poi divenuto Cattolico?

Nel 2005 ho incontrato fratello Ismaël, della comunità San Giovanni. Era venuto in Algeria spinto da un appello del Signore, per annunciare ai musulmani l’amore di Dio. Lui mi ha fatto scoprire la ricchezza spirituale della Chiesa cattolica e ho sentito in me chiarissima la chiamata dello Spirito Santo a diventare Cattolico e prete missionario per far conoscere la forza dell’amore di Gesù per noi tutti, in particolare per i nostri fratelli musulmani d’Algeria, il mio paese d’origine.

In Algeria siete liberi di esercitare il vostro ministero?

Attualmente sono vicario in una parrocchia di Algeri, il vescovo della diocesi mi ha dato questo incarico. Ma non posso risiedervi in maniera permanente. Quando sono presente accolgo con prudenza e discrezione i nuovi, numerosi, cristiani che vengono da noi. Ma fuori dal recinto della chiesa, non posso assolutamente esercitare in mio ministero.
Quando esco, per strada, non devo portare nessun segno religioso cristiano, rischierei gravi sanzioni e ancora prima verrei immediatamente aggredito. Tutti sanno che sono algerino, ma devo essere prudente. Dunque niente sottana, niente crocifisso, perché so che molti algerini non ne sopporterebbero la vista.

Qui in Algeria, abbiamo avuto un grande fenomeno di conversioni a partire dagli anni ’90, soprattutto in seno alla comunità evangelica, e in parte anche in quella cattolica. Ce ne sono ovunque ma soprattutto in Kabylie, terra più tollerante dove possiamo vivere la nostra fede in modo più libero rispetto alle altre regioni del paese dove i convertiti al Cristianesimo devono davvero nascondersi. Ogni grande villaggio di Kabylie ha la sua comunità cristiana. Oggi circa l’1 % della popolazione algerina è cristiana, cioè circa 400.000 persone.

Cosa significa vivere la propria fede cristiana, e questo tutti i giorni, in Algeria?

I musulmani convertiti al Cristianesimo devono imparare a sopravvivere in una società musulmana spesso ostile. Bisogna capire in fretta due cose: che si è perseguitati e che amici e famiglie ti rinnegheranno. I cristiani sono considerati come dei traditori, degli apostati. E per il corano… tutto ciò merita la morte.
Per quanto riguarda il lavoro e la vita pubblica, bisogna essere riservati e non parlare con nessuno e far attenzione alle rappresaglie. Se una persona occupa un ruolo di responsabilità come funzionario, o in un ruolo comunque sensibile per lo Stato, e si converte al Cristianesimo, il licenziamento è immediato.

L’ultimo caso che conosco è quello del preside di una scuola media. Appena si è scoperta la sua conversione, le autorità si sono presentate a casa sua e lui e la sua famiglia sono stati immediatamente sfrattati. È stato licenziato in tronco. Ha perduto tutto. Oggi è rifugiato in Francia. Di casi simili ce ne sono moltissimi. Sul piano politico, è proibito ad un cristiano essere sindaco. L’islam è religione di Stato e gli eletti devono giurare sul corano.

Cosa dice precisamente la legge algerina sulla questione?

Che il fatto di parlare semplicemente a qualcuno di Gesù è considerato un atto di proselitismo secondo una legge approvata nel 2006 in materia di regolamentazione dei culti “non musulmani”. La legge punisce con cinque anni di reclusione e con il pagamento di un’ammenda pari a dieci anni di stipendio chiunque si renda responsabile di atti di proselitismo nei confronti di un musulmano. La semplice possessione di due bibbie in casa può portare ad una condanna per proselitismo. Ci sono davvero molte intimidazioni. La legge del 2006 ha davvero posto un freno all’evangelizzazione, ma non è riuscita a fermarla, anche se molte chiese vengono chiuse ogni anno.
Per quanto riguarda i preti cattolici non algerini, essi sono costantemente ostracizzati quando c’è da concedere loro il visto d’ingresso nel paese, visto che spesso viene rifiutato in maniera arbitraria.

Luca Costa

Sorgente: Essere cristiani in terra d’islam

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