FINANZA/ La guerra alla Siria? Un toccasana per l’economia di Obama

giovedì 29 agosto 2013 –  Mauro Bottarelli

Non voglio entrare nel merito dell’ormai quasi certo intervento militare in Siria, ognuno di noi – con la propria coscienza – farà i conti con quanto sta accadendo. Un dato di fatto è però innegabile, questa guerra è un toccasana assoluto per l’economia Usa. Anzi, è addirittura strumentale al fatto che gli Stati Uniti riescano a passare indenni i prossimi due mesi, le colonne d’Ercole della manovra di stimolo della Fed che sta facendo impazzire i mercati. E quanto sta accadendo a Wall Street ha già un nome, “the war rotation”. E di cosa si tratti è presto detto: i venti di guerra che stanno soffiando sulla Siria, stanno contemporaneamente mettendo al loro posto tutte le tessere del mosaico che servono alla Fed per evitare che il “taper” si trasformi in uno tsunami sui mercati.

 

Lunedì pomeriggio, dopo che il segretario di Stato Usa, John Kerry, aveva tenuto la propria conferenza stampa, una formale dichiarazione di guerra verso Damasco, ecco la reazione del mercato: WTI in aumento e capace di pareggiare il Brent, oro e argento in aumento ai massimi da undici settimane, dollaro in calo e conseguente apprezzamento dello yen, Wall Street sulla via della correzione al ribasso ma, sopratutto, rendimento del Treasury decennale in calo vistoso dai massimi a due anni toccati la scorsa settimana. Tradotto, il prezzo del petrolio in aumento va a colpire i già disastrati mercati emergenti asiatici, afflitti da monete in caduta libera e bilancia dei pagamenti squilibrate per i costi dell’import, acquisti sui metalli preziosi significa un ritorno sul mercato delle commodities da parte dei fondi, quindi un allontamento dell’ipotesi di sell-off azionaria di titoli Usa una volta scaricati i beni rifugio, lo yen che aumenta pone in seria difficoltà il carry trade globale innescato dalla Bank of Japan (visto che i giapponesi a giugno hanno scaricato 20 miliardi di debito Usa, a Washington nessuno piangerà) e il calo del rendimento dei titoli nipponici parla la lingua del risk-off, Wall Street che corregge può anticipare il pricing del “taper” dai massimi e permettere la rotazione verso i bond, abbassando ancora la pressione sul rendimento del Treasury.

 

Detto fatto, negli ultimi due giorni dall’Asia ma anche dal Medio Oriente arrivava un bollettino di guerra: l’indice indiano Sensex -3,18%, quello filippino -4%, Giakarta -3,7% e addirittura Dubai -7%. In compenso, petrolio su dell’1,5% e oro che rompeva quota 1400, arrivando a 1428 dollari l’oncia. La rupia indiana, poi, perdeva contro tutte le altre divise, calando di un altro 2% ai minimi storici da vent’anni sul timore per l’esplosione del deficit di conto corrente a causa del costo del petrolio, problema che trova coinvolta anche la Turchia, la quale vede a rischio le sue esportazioni verso il Medio Oriente (un quinto del totale) per le tensioni in Egitto e Siria.

In compenso, il mercato dei leverage loans americani andava a gonfie vele, l’unico settore del mercato corporate a non aver pagato il conto all’aumento dei rendimenti del Treasury: Western Asset Management e Oppenheimer Funds guidavano il plotone degli investitori, segnale che il “taper” pare un timore molto affievolito. L’Europa, poi, ha visto tutti i listini in forte ribasso sui timori di un intervento militare, con gli spread dei Paesi cosiddetti “periferici” di nuovo in crescita, dopo i giorni di ribassi “artificiali” dovuti agli acquisti giapponesi e alla fuga da Treasuries e Bund, da lunedì tornato nella colonna “buy” degli investitori.

 

Insomma, i capitali vagano da un capo all’altro del globo alla ricerca di profitto ma alla fine, tendono a optare per la stabilità, visto il clima bellico: niente mercati emergenti, attenzione all’azionario in Giappone (ieri un altro crollo del Nikkei, -1,51%) e niente Europa. E la “war rotation” sembra funzionare, soprattutto se unita alla strategia statunitense che si sta dispiegando in questi giorni: smetterla di offrire al mercato una visione distorta della ripresa dell’economia, rendere noti i dati in modo da indurre una correzione sul mercato azionario e spingere al ribasso i rendimenti dei titoli di Stato. Venerdì, dopo aver sfondato quota 2,90% e flirtato per un attimo con il 3%, il Treasury a 10 anni ha vissuto una brusca inversione, piombando in area 2,81% “grazie” al pessimo dato giunto dal mercato immobiliare, strettamente connesso alle dinamiche del debito, visto che va a impattare sui tassi dei mutui.

 

Lunedì, la riprova. Stando ai dati del dipartimento del Commercio statunitense, a luglio, gli ordini di beni durevoli sono scesi del 7,3%, ben più di quanto atteso dagli analisti che avevano stimato un ribasso del 4%: rendimento del decennale giù in area 2,78%. Martedì, poi, altro calo in area 2,752% e altra conferma: l’indice Case Shiller 20 City Composite falliva le aspettative, crescendo solo dello 0,89% contro le attese dell’1%, il tasso di crescita sequenziale più basso dal novembre scorso. E anche il dato della fiducia dei consumatori della Fed di Richmond veniva subito sezionato dagli analisti: 14 è sì il livello più alto da agosto 2012 ma è basato solo sull’aumento del sub-indice sulle aspettative, salito a 88,7 da 86, mentre quello sulla situazione attuale è sceso da 73,7 a 70,7, il peggior calo da gennaio.

A mettere la pietra tombale sul mito della ripresa del settore real estate, poi, ci pensava Bob Shiller ai microfoni di Cnbc, a detta del quale “nulla di questo è reale, il mercato immobiliare è diventato molto speculativo e guidato da un’esuberanza irrazionale”. Il debito Usa torna quindi ufficialmente appetibile a fronte della già ribattezzata sindrome della “bad-news-is-good-news”. Ma tutte le scadenze statunitensi sono tornate nel mirino di chi cerca beni rifugio: martedì solo i titoli a due e tre anni vedevano rendimenti in limitato aumento allo 0,038% e allo 0,381%, mentre quelli a 5 anni e 30 anni scendeva rispettivamente all’1,562% e al 3,744%.

Ieri, poi, un primo stop ma solamente tecnico: in attesa del dato chiave sulla vendita di nuove case, il decennale prezzava il 2,76% e il Bund l’1,86% ma appariva chiaro che un minimo segnale di conferma dell’attacco avrebbe mosso al ribasso il rendimento dei beni rifugio, tanto che il nostro spread restava in area 255 punti base e soltanto a una manciata di punti base da quello dei Bonos spagnoli.

Quindi, nessuna riallocazione di capitale sull’Europa: si compravano solo oro e petrolio, acquisti destinati a far calare il dollaro – mettendo in difficoltà il Giappone per il rafforzamento dello yen – e a compromettere qualsiasi tentativo di rimbalzo dei mercati emergenti. Insomma, mai guerra giunse più puntuale. Tanto più che il Tesoro americano potrebbe raggiungere il tetto sull’indebitamento federale entro metà ottobre, se non verrà trovato prima un accordo sui conti pubblici al Congresso. L’allarme è stato lanciato due giorni fa dal segretario al Tesoro, Jack Lew, allo speaker della Camera a maggioranza repubblicana, John Boehner. La nuova data è giunta inattesa: esperti ed osservatori si aspettavano il raggiungimento del limite fissato a 16.700 dollari a metà novembre. Nel 2011 un mancato accordo e il conseguente spettro di default portarono a un declassamento del debito a stelle e strisce da parte di Standard & Poor’s e a scosse sui mercati globali. Dopo due anni, i rischi sono gli stessi e arrivano in un momento già di elevata volatilità, legata al “taper” della Fed. Lo sa bene Lew che ha spiegato a chiare lettere che il Tesoro rischia di avere a sua disposizione a ottobre solo 50 miliardi di dollari in contanti. Lew ha inoltre dichiarato che “gli Stati Uniti potrebbero affrontare un deficit di liquidità immediata” e un tale scenario “potrebbe indebolire i mercati finanziari e provocare una significativa battuta d’arresto per la nostra economia”. Ma un contesto bellico potrebbe aprire nuovi scenari, non ultimo un intervento della Fed per posticipare quella data e innalzare di un po’ il “debt ceiling”, facendo guadagnare tempo prezioso agli Usa, mentre il resto del mondo – Europa in testa – dovrà affrontare un periodo di instabilità che si preannuncia davvero pericoloso. Per ora l’Italia ha ballato ma retto: oggi il test più duro, il Tesoro cercherà di collocare 6 miliardi di euro in Btp a 5 e 10 anni. Il viaggio verso l’ignoto comincia adesso.

Fonte: FINANZA/ La guerra alla Siria? Un toccasana per l’economia di Obama.

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