I cristiani d’oggi e l’oblio dell’Eschaton

sabato 30 marzo 2013

Riceviamo da un nostro lettore ed estimatore questo bel contributo.

In fin dei conti – pensavo – il problema è sempre quello. Quello di aver dimenticato che la vera vita, è un’altra. Come diceva uno psicanalista di mia conoscenza, quando un ragazzo si sballa il sabato sera, quando un uomo commette i più gravi peccati, in ultima analisi lo fa perché conserva nel suo DNA esistenziale più profondo il ricordo di un’altra vita, il ricordo di una sorta di iperuranio platonico di cui deve aver visto qualcosa prima di nascere e che appunto gli è rimasto impresso nelle viscere come un qualcosa che gli appartiene, che gli spetta di diritto, e al quale vuole tornare. Immagino l’obiezione alla tesi platonica dell’esistenza precedente, d’accordo. Ormai siamo tutti un po’ razionalisti e diffidiamo dei miti. Però c’è qualcosa di vero in quella tesi che non può essere espunto così, senza gettare via il bambino insieme con l’acqua sporca. Mi si conceda almeno una sorta di innatismo: ripeto, la coscienza o il desiderio più o meno latenti che la vita non è questa, ma un’altra. Coscienza che porta alcuni a rifuggire i limiti di una modesta vita borghese, apparentemente ligia ai protocolli di una qualsiasi tradizione o cultura. Il punto è – come sapientemente diceva Hermann Hesse – che i lupi della steppa aborriscono il sistema di vita borghese, ma ne fanno comunque parte e non hanno la forza per compiere il salto decisivo e uscirne fuori una volta per tutte. E così tra compromessi e mediazioni di sorta con quel mondo in cui pur sempre devono vivere, addomesticano la loro natura lupina e dimenticano l’assoluto al quale erano chiamati.

Dimenticare questo è l’inizio del fallimento per tutti i sistemi di pensiero che si sono succeduti nella storia. In sostanza, dimenticare il buon “mito” del peccato originale. Fallisce il marxismo, perché fondato su un’antropologia che non funziona, quando pensa che in fin dei conti l’uomo è buono per natura, e che può costruire il regno di Dio su questa terra, in una prospettiva puramente immanente. Fallisce il capitalismo, perché seppur fondato su principi diversi, eleva l’economia a suo unico idolo e la lotta di mercato a mezzo necessario, con la conseguenza che la ricerca indiscriminata del profitto senza un’etica condivisa arricchisce solo i ricchi e impoverisce ancora di più i poveri: non ci aveva messo in guardia Giovanni Paolo II, proprio lui, il grande nemico del marxismo, dai pericoli altrettanto reali del capitalismo più esasperato? Falliscono tutte quelle teorie politiche che in ultima analisi dimenticano la riserva escatologica. Credono di costruire un regno di eterna felicità in questo mondo, e si installano. Sposano una tradizione, una cultura, e ne fanno la tradizione o la cultura eterne. Rimango allibito quando sento cristiani sostenere a spada tratta questa o quella linea politica, per non dover abbandonare equazioni che esistono solo nella loro mente come cristianesimo=liberalismo o =filantropismo o =pauperismo o =populismo mandando a quel paese il loro spirito critico, il buon senso, e appunto, l’escatologia cristiana. C’è qualcosa che non mi quadra non solo a livello politico, ché quello sarebbe il meno, ma già a livello individuale. Credono davvero di riuscire a realizzare la bella idea teorica che hanno nella testa, così, tout court, senza residui? Non staranno sopravvalutando le loro capacità morali? C’è qualcosa che non mi quadra in queste religioni e politiche di santi terreni. Il sillogismo (errato) che sta dietro a tutti i loro ragionamenti è questo: cristianesimo=etica, etica=teoria realizzabile praticamente senza residui di sorta, da cui: cristianesimo=teoria realizzabile praticamente. Aggiungerei anche politicamente. In altri tempi, seppur in una prospettiva solo individuale, questa visione si sarebbe chiamata Pelagianismo. Si difendono e si amano valori, non persone, e se fosse così non si capisce davvero perché i padri della Rivoluzione Francese ce l’avessero tanto a morte con quella Chiesa di cui pure condividevano tanti ideali. Prego leggere il n. 1 di Deus Caritas est: “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione definitiva”. Direzione definitiva che è sempre da-compiere, perché nessuno è santo arrivato, e il regno di Dio non è una costruzione che possiamo fare noi, ma che si deve continuamente accogliere, in cui la nostra azione è solo azione di-risposta. L’uomo è sempre homo viator, e l’azione, come dicevano i Romantici, che saranno stati pure panteisti, ma qualcosa di interessante la dicevano, è streben, sforzo continuo, che non finisce in questa vita. Persino il grande Kant che operava nei limiti della sola ragione dovette spostare il fine di tutti i nostri sforzi e le congrue ricompense a loro connesse in un ipotetico aldilà più o meno postulato. Per non morire di disperazione (SÖren, audi!) bisogna accogliere la Grazia come i bambini, tutto qua. Ovviamente non in senso luterano, perché con la Grazia si collabora. Ma in ultima istanza l’incipit non è il nostro, ma di un Altro.

Ovviamente anche tra i cristiani si annidano questi cultori della dimenticanza della riserva escatologica e di un problematico rapporto con il mondo/la cultura di un singolo tempo storico. Non solo in chi sposa acriticamente e senza residui una teoria politica, ma anche tra i fruitori/fautori di una vita ecclesiale apparentemente più vicina al depositum fidei. Vecchie categorie come progressismo/tradizionalismo sono tutt’altro che morte, condividendo entrambe pur su fronti opposti il loro (problematico) rapporto con la “lettera” e lo “spirito”: gli uni – i progressisti – rifiutando apertamente lo scandalo della fede e cercando l’adattamento della dottrina cristiana alla comprensione dell’uomo odierno; che in ultima analisi è uno svuotamento della fede, e di una fede così dimidiata timida e resa inoffensiva, l’uomo onesto intellettualmente di fronte all’esistenza non sa che farsene. Si rimane nel mondo con le stesse domande sui grandi enigmi dell’esistenza ma adesso senza risposte, perché si pensa che quelle che c’erano o erano troppo poco fondate teoreticamente o troppo difficilmente realizzabili. Pur concedendo entrambe le obiezioni, non sapremo che farcene di risposte aggiornate che non sono altro che il pretesto per salvare ciò che una volta aggiornato alle mode non serve che ad essere gettato via. Gli altri – i tradizionalisti – difendono apparentemente la fede affermando che non si deve toccare il deposito tramandato che per essi si esprime anzitutto nella ‘lettera’. Un gruppo di fedeli ultra-religiosi amanti delle proprie liturgie e dei propri usi contro il tempo, e ci si chiede davvero se amino più quegli usi o Cristo stesso. Di attività extra-liturgiche poi, beh, non si sa se ne abbiano il tempo, perché sono più importanti l’incenso e l’incensiere. Che stiano bene pure loro. I non-credenti, giustamente, ridono.

Un’ultima parola per chi questo lo ha pure capito, ma non ce la fa a compierlo. E’ comunque sulla strada giusta. Che non perda troppo tempo a discutere con gli amici di Giobbe, catechisti razionalisti non richiesti, quelli del piano di sopra. Meglio stare con Giobbe. Che attende. Che attende blaterando, imprecando, quasi bestemmiando, ma rimane sulla barca in tempesta e non abbandona il timone nemmeno quando sarebbe ragionevole gettarsi in mare. Il Cristianesimo, lo ribadisco, non è un’ideologia né un’etica, che un uomo o l’umanità possano così compiere e realizzare autonomamente con la semplice forza della volontà o lo sforzo dell’intelligenza, altrimenti Cristo sarebbe morto invano. Questo vorrei qui ricordare. Cristo rimarrà eternamente scandalo e follia per uomini e popoli – asseriva solennemente Von Balthasar nella sua lezione magistrale al Meeting del 1984. Ma accogliere la verità di quella croce che rimane mistero, e che si svelerà pienamente solo alla fine dei tempi, è quello, che salva. Croce e risurrezione in ultima analisi sono le due facce della medaglia dello stesso evento. La croce è ciò che un uomo vede guardando dal-mondo, la risurrezione è ciò che vede un uomo celeste che ha fatto dell’aldilà il suo destino. E non solo in senso cosmologico, ma primariamente antropologico. Cosicché questo sguardo può essere anticipato – se Dio ce ne dà la grazia e noi ci lasciamo illuminare – nell’aldiquà, nel nostro spirito stesso, dallo Spirito Santo che ce ne fa intuire qualcosa a mo’ di caparra. La croce testimonia proprio che quella Vita-altra in questo mondo non poteva essere accolta, perché il suo accoglimento determina proprio la fine di esso. Cristo è e rimane ex parte mundi, sempre crocifisso. Ed ex parte caeli, sempre glorioso. Ma il crocifisso e il risorto sono e rimangono la stessa persona, permanendo i chiodi e le ferite nel corpo resuscitato. Per questo ogni nostra azione sarà sì accolta, ma purificata e redenta. Quando la placenta si sarà rotta, e noi attraverseremo l’utero, vedremo la transitorietà di ciò che abbiamo lasciato e ciò a cui eravamo da sempre destinati.

«Possiamo essere protestanti o cattolici, ortodossi o riformati, progressisti o conservatori. Ma, se vogliamo che la nostra fede abbia fondamento, dobbiamo avere visto e udito gli angeli presso il sepolcro spalancato e vuoto.»
(K. Barth)

Ad Maiora!

Fonte: I cristiani d’oggi e l’oblio dell’Eschaton.

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