I curdi denunciano: la Turchia aiuta l’Isis – Corriere.it

Le bandiere nere del Califfato sono ormai alle porte della Turchia. Si combatte a Kobane, uno dei tre cantoni del Rojava, il Kurdistan siriano. «Hanno attaccato da tre lati. Molti villaggi sono stati presi, tra noi e loro ora ci sono venti chilometri, continuiamo a lottare sul campo», spiega Idris Nassan, vice rappresentante per gli Esteri di Kobane. «Daesh (Isis) vuole fare un massacro come in Sinjar e la comunità internazionale ci deve aiutare», fa sapere al telefono prima che cada la linea.

 

 

 

Dopo mesi di accerchiamento i miliziani di Isis stanno avendo la meglio. Centinaia di migliaia di bambini, anziani e donne sono scappati dall’inferno e si sono trovati a premere sul filo spinato del confine turco. Il governo di Ankara li ha respinti e solo venerdì scorso ha deciso di aprire la frontiera temporaneamente. In quegli stessi giorni lsis ha liberato gli ostaggi che aveva catturato nel consolato turco al momento della presa di Mosul. Liberati, fanno sapere, senza il pagamento di alcun riscatto e senza alcun blitz militare.

 

La Turchia da che parte sta? «La frontiera è attraversata da camion carichi di armi, giovani occidentali pronti ad arruolarsi tra le fila di Daesh (Isis), feriti di guerra che poi vengono curati negli ospedali di Ankara e intanto i bambini sono abbandonati», denuncia Orhan Sansal, sindaco di Suruç, ultima città turca prima di arrivare in Siria. È il lato oscuro della Turchia che voleva essere Europa, ultimo avamposto di quella Nato che ora ha deciso di bombardare il Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi. Benché Erdogan abbia dichiarato che le accuse sono infondate, secondo i curdi sul fronte turco siriano la Turchia sostiene i tagliatori di gole che vogliono non solo seminare terrore, ma anche diventare elemento fondante di una nuova realtà politica, religiosa, sociale e territoriale.

 

A fine agosto, negli ultimi giorni di libertà, il cantone di Kobane è accerchiato e senza vie d’uscita. Si entra illegalmente pagando 50 dollari a un contrabbandiere pronto ad accompagnarti a piedi. A ovest, a est, a sud non si può passare. I miliziani di Isis minacciano di entrare. Verso nord la Turchia blocca l’ingresso. Dall’altra parte della frontiera, sul suolo turco, ci sono anche loro, i profughi siriani, che vogliono tornare a casa perché preferiscono la guerra alla fame. Aspettano per giorni, settimane, dormendo per terra e sperando che i soldati turchi non sparino.

 

Ayn al-Arab (in curdo Kobane) è proprio dietro la rete che segna il confine. Qui non sono arrivate le armi che gli occidentali hanno deciso di dare ai peshmerga in Iraq; qui persino gli aiuti umanitari arrivano con il contagocce. A pochi chilometri dalla città ci sono i carri armati: sono quelli che l’esercito degli Stati Uniti aveva ceduto agli iracheni a Mosul. Ora hanno la bandiera nera del Califfato. L’obiettivo è conquistare queste terre, hanno già tagliato la luce, l’acqua non c’è. Uomini e donne delle milizie delle Unità di Protezione del Popolo (Ypg) provano a difendersi con i pochi mezzi a disposizione. Sono gli stessi che sono andati in aiuto ai peshmerga, in Iraq, per portare in salvo yazidi e cristiani. Sono gli stessi che supportano il Partito dei lavoratori curdi (Pkk) che il governo americano considera un’organizzazione terroristica.

 

Storie di curdi diversi che combattono la stessa guerra, ma qui, nella Siria che non ha petrolio, per troppo tempo sono stati abbandonati al loro destino. La Siria dove tutto è fuori controllo. Il Free Syrian Army, il fronte di opposizione nato dalle proteste di piazza contro il regime antidemocratico di Damasco, è ormai ridotto a una miriade di compagini. Molti combattenti si sono arresi o sono passati nelle fila dei gruppi radicali. Ogni zona ha i suoi check point e nessuno è in grado di controllare il territorio. Gli jihadisti di Isis avanzano reclutando con il terrore. Bashar al-Assad, forte della recente e scontata rielezione, nonostante le barbarie e l’utilizzo di armi chimiche, vorrebbe riproporsi come un interlocutore per l’Occidente. Alleanze e opposizioni si sfaldano e si ricompongono, mentre l’orizzonte mostra solo fame, disperazione e macerie in una terra dove ci sono voluti 200mila morti e tre anni di sangue per convincere i membri del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a varare una risoluzione per portare gli aiuti umanitari senza il controllo del governo di Damasco. «Una risoluzione unica nel suo genere», afferma Daniele Donati, capo dell’unità di risposta alle emergenze della Fao, «e non bene accolta da Bashar al-Assad che la considera una violazione dell’integrità territoriale della Siria».

23 settembre 2014 | 07:34

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