Il Beato Rivi, oltre il muro dell’indifferenza | La Nuova Bussola Quotidiana

di Andrea Zambrano *20-08-2014

È l’indifferenza che uccide due volte i martiri. L’indifferenza generata dall’omertà. Lo sanno bene i cristiani dell’Iraq che vengono allontanati dalla loro terra dalle milizie islamiche dell’Isis. Un’indifferenza di cui l’Occidente si sta rendendo sempre più responsabile fino a rasentare la complicità. Eppure quello che sta accadendo alle vittime della barbarie del nuovo Califfato iracheno sembra ripercorrere, nello svolgimento, la stessa dinamica di tante altre vittime dell’odium fidei.

Verrà un giorno in cui anche per i bambini e le donne irachene sarà riconosciuto l’appellativo di martire. Ma prima il loro ricordo dovrà cristallizzarsi fino quasi a scomparire come un seme, che poi, quando sarà il momento, potrà ridare nuovi frutti. È successo così anche per Rolando Rivi, il seminarista beato ucciso a 14 anni dai partigiani comunisti alle Piane di Monchio in provincia di Modena il 13 aprile 1945. Per la sua elevazione agli altari ci sono voluti 70 anni. 70 anni di silenzi, di omertà, di paure.

Non era da solo, quando una formazione di partigiani comunisti lo uccise con due colpi di pistola in un bosco dell’Appennino modenese. Con lui c’erano almeno uno, ma forse due suoi conoscenti di San Valentino di Castellarano, il paese natale in provincia di Reggio Emilia, da cui era scomparso senza spiegazione appena tre giorni prima. Rolando li conosceva bene, ma questi non fecero nulla per fermare l’odio ideologico del commissario politico della formazione partigiana Giuseppe Corghi e del comandante del distaccamento Delciso Rioli. Perché non intervennero? E perché non raccontarono mai per tutta la vita della loro presenza su a Monchio mentre il loro amico veniva ucciso barbaramente?

Rolando venne ucciso, come dice la sentenza di secondo grado che nel 1952 condannò i due assassini perché «nell’ambiente di San Valentino costituiva un ostacolo alla penetrazione del comunismo». Ma i due assassini che posero fine alla sua vita a 30 km di distanza da casa sua non lo conoscevano fino a quel momento. Chi lo consegnò ai suoi aguzzini? Chi lo ingannò per farlo allontanare da casa verso il suo calvario? Per scoprirlo bisogna scavare tra i ricordi e le testimonianze riemerse dopo 70 anni di oblio. Come quella di Nella Baccarani, che dopo 70 anni di silenzio ha deciso di rovesciare il cassetto dei ricordi: «Assistetti al racconto di un partigiano di San Valentino che era presente durante la tortura, parlò delle cinghiate che ricevette Rolando. Fu terribile. Ci venne imposto di non parlare mai di questa cosa. E così feci, fino ad oggi».

Rolando dunque non venne rapito violentemente, ma fu allontanato con un inganno da casa da persone di cui poteva fidarsi. Soltanto dopo scattò il sequestro e poi la morte. Rolando aveva imparato a conoscere la differenza tra i partigiani comunisti delle brigate Garibaldi e quelli democristiani delle Fiamme Verdi, comandati da don Domenico Orlandini, il comandante Carlo, che tra i seminaristi reggiani era diventato una specie di eroe popolare.

Per capire quel delitto quindi bisogna calarsi nel contesto di San Valentino: un contesto in cui il parroco don Olinto Marzocchini veniva fatto oggetto in parrocchia di razzie e rapine ed era considerato il padrone da abbattere nel corso dell’imminente rivoluzione bolscevica e che venne fatto oggetto di diversi attentati. Rolando era dunque un simbolo di questa lotta di classe, portata fino alle estreme conseguenze: era un seminarista, figlio di uno dei mezzadri del parroco, e soprattutto, nonostante la giovane età, era già animato da un profondo anticomunismo. Colpirlo, significava colpire al cuore la Chiesa e un ostacolo ai piani di conquista comunisti che si erano inseriti subdolamente. E il piccolo borgo di San Valentino non era estraneo a questo. Molte testimonianze parlano della tensione percepita in paese tra i civili, spesso esposti, e i partigiani comunisti: un drammatico caso di stupro di un’insegnante, una minaccia con coltello ad un amico di Rolando, liti, occupazioni di case e terreni per pianificare attentati ai tedeschi che mettevano a rischio la popolazione. È per questo che la stessa Chiesa reggiana fu sempre molto prudente nell’affrontare questo caso di cui oggi si è certificato il martirio. Una prudenza alimentata dalle voci infamanti su Rolando immediatamente dopo la barbara uccisione, ma che rasentava il dubbio in assenza di indagini rigorose che ne inquadrassero la tragica vicenda.

Ci furono anche relazioni che non erano positive su quella vicenda, come ha testimoniato per la prima volta don Ennio Munari parlando di un dossier dell’allora vice rettore don Mora, che però in curia stranamente riferiscono non esistere. Si temeva insomma che Rolando si fosse andato a cacciare in un guaio per colpa della sua esuberanza. In realtà, tutti quei dubbi e tutte le incongruenze dinamiche, vennero risolte pienamente durante le udienze: Rolando venne allontanato con un inganno da persone di cui si fidava, poi dopo essere stato sequestrato fu torturato brutalmente e infine ucciso mentre i suoi assassini architettavano la falsa accusa di spionaggio. Ormai tardi per cambiare il corso della storia: così Rolando venne relegato ai margini anche della pubblicistica cattolica e il suo sacrificio fu completamente dimenticato per anni. Fino a quando un evento prodigioso non riportò l’attenzione sul seminarista e la sua vicenda, sprofondata nell’indifferenza, iniziò a virare: dalla devozione al culto.

Oggi la Chiesa, con la sua beatificazione, non ha soltanto messo la parola fine ad una violenza su un innocente seminarista innamorato di Gesù, ma ha dato il suo contributo fondamentale nell’analisi storiografica della guerra civile italiana. Solo a Reggio vennero uccisi 11 tra preti e seminaristi. Nel Triangolo della morte si uccideva dunque in odio alle fede. Lo stesso odium fidei che oggi vediamo pianificato in Iraq e in tutti i paesi in cui i cristiani sono perseguitati e uccisi. L’immagine di Rolando è stata esposta nel seminario di Reggio e nelle cattedrali perché oggi è un esempio di fede e di coraggio. E non è un caso che lo stesso arcivescovo di Ferrara, Luigi Negri, che è presidente del comitato Amici di Rolando Rivi, promotore della causa, dopo aver fatto esporre nel Duomo cittadino l’effige di Rolando, abbia fatto lo stesso in questi giorni anche con la “n” dell’alfabeto arabo, che sta diventando il simbolo della tragedia dei Nazareni iracheni. Perché è solo chiamando le cose con il loro nome, che si può oltrepassare il muro dell’indifferenza e della paura.

* Andrea Zambrano è autore del libro Beato Rolando Maria Rivi, il martire bambino, uscito in questi giorni per le edizioni Imprimatur. L’inchiesta si serve di testimonianze inedite su ciò che accadde prima e dopo il martirio del seminarista e inquadra il contesto storico nel quale è maturato il delitto con l’apporto di documenti e del racconto dei protagonisti: la violenza nei confronti degli uomini di Chiesa nel triennio ’43-’46, i tentativi di soffocare nella menzogna il ricordo del seminarista, le fasi salienti dei processi che condannarono gli assassini e il lungo cammino percorso dalla Chiesa che il 5 ottobre lo ha proclamato beato. Un cammino difficile e inquinato dalle calunnie sul conto del “pretino”, ma che alla fine, servendosi della verità germogliata tra mille ostacoli, è approdato alla gloria finale.

Fonte: Il Beato Rivi, oltre il muro dell’indifferenza.

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