“In Giordania non c’è futuro per noi”

Alcune testimonianze raccolte da ACS spiegano la dura situazione dei cristiani in Medio Oriente

ROMA, venerdì, 15 giugno 2012 (ZENIT.org) – «Non voglio più tornare in Iraq». Lina – nome di fantasia – ha appena 34 anni. Ha lasciato Bagdad nel 2010, qualche giorno prima dell’attentato alla cattedrale siro cattolica di Saydat al Najdat: la sua Chiesa. Quel 31 ottobre, nell’attacco terroristico, è morto suo nipote.

Oggi Lina e suo marito vivono nella periferia Est di Amman, capitale giordana, visitata nei giorni scorsi da Aiuto alla Chiesa che Soffre. Come loro, migliaia d’iracheni che dall’inizio della guerra nel 2003 hanno trovato rifugio nel vicino regno hascemita. I cristiani sono numerosi, ma i musulmani sono la maggioranza. Difficile, però, fornire stime precise.

Le autorità locali parlano di circa 450mila persone, un dato probabilmente gonfiato per avvalorare a livello internazionale la “vocazione umanitaria” della Giordania. «E’ impossibile conoscere la cifra esatta» dichiara ad ACS Ra’ed Bahou, direttore dell’Ufficio di Amman della Pontificia Missione per la Palestina (la speciale agenzia della Santa Sede con sede principale a New York, che dirige e coordina tutte le organizzazioni e associazioni cattoliche impegnate negli aiuti alla Terra Santa).

E lo stesso organismo per i rifugiati delle Nazioni Unite, l’UNHCR, certifica un ben più ridotto 150mila. Attualmente i cristiani iracheni fuggiti in Giordania sarebbero circa 20mila, ma prima del 2008 hanno raggiunto gli 80mila.

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