La difficile vita dei copti d’Egitto stretti tra i jihadisti e il governo – Gli occhi della guerra

Il sangue sufi e quello copto si mescolano in terra d’Egitto, dove gli jihadisti perseverano nell’intento di distruggere il Paese partendo dalle loro minoranze. L’attentato della moschea al Rawda di Bir al Abed è solo l’ultimo esempio dell’orrore che può colpire i fedeli di ogni fede contraria ai dettami del salafismo, ed è un monito importante per non dimenticare i cristiani copti, che lì vivono tra lo jihadismo e una forte compressione dei propri diritti per mano del governo. Tra l’incudine del governo e il martello di Isis, la vita dei cristiani egiziani non è semplice. Il governo di Al Sisi ha promesso protezione nei confronti dell’antichissima e cospicua minoranza cristiana del Paese, ma nei fatti quello che sta avvenendo è più che altro una lenta e inesorabile presa di coscienza dell’essere una parte indesiderata del Paese. Parliamo di almeno 10 milioni di persone, senza statistiche ufficiali che confermino i numeri dati dalle analisi sociologiche. Le fonti parlano di almeno un 15% della popolazione egiziana appartenete a questa confessione, il che ne fa una delle componenti più importanti dell’Egitto. Eppure, nonostante ciò, Il Cairo sembra voler rendere i copti una sorta di minoranza tollerata più che farne una delle tante colonne che costruiscono il popolo egiziano.

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La legge del 2016 che prometteva di annullare le restrizioni sulla costruzione e il restauro delle chiese, sembrava essere un primo grande passo per il ritorno a una convivenza sana fra musulmani e cristiani. I limiti burocratici che il diritto egiziano imponeva sulle strutture ecclesiastiche, di fatto, rendeva quasi impossibile poter rispondere alle esigenze delle comunità cristiane. Ma questa legge non ha risolto problemi storici che questa comunità continua ad avere. Primo fra tutti, il fatto che le chiese debbano essere limitare nella loro costruzione in base al numero di fedeli presenti nell’area di sua competenza. Una regola che non vale per le moschee e che mostra, in modo chiaro, la diffidenza e la discriminazione politica verso i copti. E come se non bastassero le già difficili condizioni di sopravvivenza delle chiese copte, sono arrivate anche le chiusure di alcune chiese da parte degli uffici governativi nelle città di Minya e Sohag. Chiusure che andavano di pari passo con gli attacchi islamisti che aumentavano, e che sembravano quasi essere una macabra conseguenza del terrorismo islamico.

La chiusura di una chiesa, come si può leggere nel comunicato di fine ottobre della diocesi di Minya “fa pensare che pregare sia un crimine e che i copti debbano essere puniti per questo”. E purtroppo, l’aumento degli attacchi jihadisti e i colpi inferti dalla burocrazia fanno credere che siamo di fronte a una vera e propria criminalizzazione del cristianesimo copto. Tra il sud dell’Egitto e il nord del Sinai, quello che è chiaro è che oggi essere copti è un pericolo. E se non è un crimine formalmente, lo è nella mente di molti fanatici che si uniscono allo Stato islamico e di molti islamici radicali che si trincerano dietro le leggi di uno Stato fondato non più veramente sulla laicità e sulla libertà religiosa.


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Questi sono tre progetti, tutti con un unico obiettivo: non lasciare soli i cristiani di Aleppo

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Causale: ilgiornale per i cristiani


 

Gli attentati dello scorso 9 aprile contro le chiese copte di Tanta e di Alessandria hanno provocato 44 morti. Due mesi dopo è stata la voltò di un autobus, colpito dalla follia dell’Isis, a diventare il teatro del massacro di 29 martiri la cui unica colpa era essere cristiani. I tre attentati terroristici hanno riportato al centro dell’attenzione la vita dei cristiani d’Oriente, troppo spesso colpevolmente dimenticati e lasciati in balia del fondamentalismo islamico. Dopo quel fiume di sangue versato, il governo di Al Sisi dichiarò di voler difendere a tutti i costi la vita dei copti. Ma quello che ne è scaturito da questa ondata di “sicurezza” intorno alle chiese e le comunità cristiane, è stata soprattutto una forte compressione della libertà di movimento e di culto dei fedeli. “Il governo ha ristretto la nostra libertà di movimento, ha cancellato le nostre attività religiose, e ora sta chiudendo le chiese, con la scusa di proteggerci. I cristiani copti si sentono sempre più marginalizzati”, commenta l’avvocato Ghabrial ad Al Monitor. E intanto, il governo, dopo le chiusure delle chiese, continua a boicottare ila comunità. Lo scorso 9 novembre, alla ciesa di Papa Kyrilios, nel distretto di Shubra al Kheima, è stata tolta l’elettricità. Da quel momento, i fedeli hanno occupato la chiesa, per paura che sia l’inizio di un assedio per farla chiudere. A nulla sono valsi gli appelli del vescovo: i cristiani copti vogliono poter vivere pienamente la loro fede. Ma dove non arriva la furia dell’Isis, arriva la cieca burocrazia del governo.

 

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