La Francia dopo Charlie Hebdo | Tempi.it

gennaio 17, 2015Mauro Zanon

L’ebbrezza della «manifestazione repubblicana», i “Je suis Kouachi” delle periferie, la paura di essere tacciati di “islamofobia”. Reportage da Parigi

charlie-hebdo-terrorismo-islamico-francia-tempi-copertinaParigi. Quando Pierre, professore in un liceo professionale del Val-d’Oise, nella periferia parigina, chiama per raccontare le reazioni dei suoi allievi di confessione musulmana alla strage di Charlie Hebdo, con la franchezza e la rassegnazione di chi alle asperità della banlieue è confrontato quotidianamente, Jean-Jacques Bourdin, conduttore radiofonico e televisivo di successo che ogni mattina officia su Bfmtv, è terribilmente a disagio. Non perché quello che ha appena sentito lo sorprende o gli è estraneo, bensì perché quella illustrata da Pierre è una realtà su cui lui, come numerosi altri giornalisti e personaggi ubiquitari nei salotti televisivi, apologeti impenitenti del vivre ensemble e del multiculturalismo, preferiscono sorvolare.

«I miei allievi giustificano la strage all’unanimità – dice Pierre –, non tollerano alcun tipo di caricatura del profeta Maometto. (…) Non capiscono come si possano pubblicare delle caricature di Maometto e poi lamentarsi se queste persone vengono assassinate». Qualche secondo di silenzio imbarazzato, poi Bourdin cerca timidamente di controbattere, minimizzando: «Sicuramente non avranno riflettuto…». Ma il professore insiste: «Sì, Monsieur Bourdin, purtroppo hanno riflettuto, ne parlano molto tra di loro. Nel nostro istituto la laicità non esiste più, è una gioventù in via di perdizione». E ancora: «Bisogna dirlo, questi giovani odiano la Francia, non si riconoscono nei suoi valori e soprattutto nella libertà d’espressione». La chiamata sta per volgere al termine quando il conduttore prova ancora una volta a smorzare l’impeto della testimonianza: «Si tratta comunque di casi minoritari…». «Purtroppo no Monsieur Bourdin, non sono affatto minoritari», risponde Pierre, prima di assestare il colpo finale: «Questa gioventù è la Francia di domani, dobbiamo rendercene conto».

Dietro l’ipermediatizzazione della «marcia repubblicana» di domenica, la retorica dell’unità nazionale, i “je suis Charlie” di maniera, l’indignazione collettiva, l’unanimismo obbligato e il doppio discorso tenuto da molte associazioni e anime candide del mondo occidentale che straparlano in questi giorni di libertà d’espressione da difendere dopo aver accusato Charlie Hebdo di «razzismo» e «islamofobia» al momento dell’uscita delle celebri vignette su Maometto, si cela un problema molto più complesso. Le testimonianze, come quella di Pierre, disvelano l’esistenza di una profonda frattura identitaria in seno alla società francese, che la strage di Charlie Hebdo ha soltanto riportato alla luce e sottolineato.

Come Pierre, molti altri professori, che insegnano soprattutto in quelle che fino al 2007 si chiamavano Zep (le zone di educazione prioritaria istituite nel 1981 dall’allora ministro socialista dell’Educazione nazionale Alain Savary in un’ottica di rafforzamento educativo dei contesti più svantaggiati dal punto di vista socio-economico, da poco ribattezzate Rep, rifondazione dell’educazione prioritaria), hanno reso pubblica la loro testimonianza sulla mancata condanna dell’attentato al giornale satirico da parte della maggioranza dei loro alunni di religione musulmana. E anzi sulla tendenza assai diffusa a giustificare la strage.

Charlie Hebdo, Coulibaly in un video rivendica gli attentati«Je ne suis pas Charlie»
Un’insegnante di una scuola classificata Rep di Grenoble ha raccontato al settimanale Le Point le scene di tensione vissute durante il momento di silenzio di venerdì scorso richiesto dal ministero dell’Educazione nazionale in ricordo delle dodici vittime dell’attentato: «Madame, mi ha detto una delle mie alunne (di quatrième, cioè la nostra terza media, ndr), non ci lasciamo insultare da una vignetta sul profeta, è normale che ci vendichiamo. È più che una presa in giro, è un insulto!». Affianco alla giovane alunna, testimonia l’insegnante, una sua compagna, anch’essa di confessione musulmana, ha ratificato. E nemmeno il tentativo di far valere il principio della libertà di espressione ha funzionato. Un altro piccolo gruppo di alunni musulmani ha cominciato subito ad agitarsi e ad alzare il tono della voce: «Perché hanno continuato, Madame, dato che li avevamo minacciati?».

Su Facebook alcuni insegnanti, pur con molte difficoltà, sono riusciti a intavolare un dibattito con gli studenti, altri, lì dove le tensioni religiose sono troppo forti, vi hanno rinunciato sconsolati. «È impossibile avviare una discussione su quanto accaduto», ha dichiarato un professore di filosofia dell’Essonne contattato da Le Figaro. In una scuola media di Parigi, nel XIII arrondissement si sono sentite frasi di questo genere: «Se la sono cercata. Si raccoglie quello che si semina a forza di provocare».

Ma è nel dipartimento del Seine-Saint-Denis, lì dove sono scoppiate nel 2005 le tristemente celebri rivolte delle banlieue, che i moti di ribellione e i rifiuti di prestarsi al momento di raccoglimento sono stati maggiori. In una scuola elementare del dipartimento, più dell’80 per cento degli studenti di una classe si è opposto al minuto di silenzio. Al Lycée Paul Eluard di Saint-Denis, nella giornata di venerdì scorso è stato persino trovato un pacco sospetto nella sala degli insegnanti, con su scritto «Je ne suis pas Charlie» (non sono Charlie, ndr), che ha richiesto l’intervento degli artificieri. A Lille, un alunno musulmano di tredici anni ha interrotto il minuto di silenzio rivolgendosi in questi termini all’insegnante: «Je te bute à la kalach». Ti uccido col kalashnikov.

FRANCE-DAMMARTIN-EN-GOELE-CHARLIE-SUSPECTS-ASSAULT-OPERATION«Non mi sorprendono affatto queste reazioni, ne ho sentite di tutti i colori anche qui», dice a Tempi Robert Ménard, giornalista, intellettuale e fondatore di Reporters sans frontières, dallo scorso anno sindaco di Béziers, seconda città più popolosa del dipartimento dell’Hérault. «Nei giorni successivi all’attentato, alcuni agenti della polizia municipale si sono recati nei quartieri dove la maggioranza è di origine arabo-musulmana e sa come sono stati accolti dai ragazzi che si trovavano per strada? Con il dito medio alzato e un grido: “Allahu akbar”, Allah è grande».

Più ancora che la paura, prevale un senso di smarrimento: «A Béziers, negli istituti di scuola primaria (la nostra scuola elementare, ndr) il 65 per cento degli alunni è di religione musulmana. Come li integriamo? O meglio, come li assimiliamo?». Alle origini della “fracture identitaire”, Ménard vede la deflagrazione del modello assimilazionista su cui la Francia si è costruita e di trent’anni di politiche dissennate in materia d’immigrazione: «In primo luogo, la nostra classe dirigente ha accettato un’immigrazione massiva, in secondo luogo ha abbandonato la politica di assimilazione. L’unione di questi due fattori ha portato al disastro al quale stiamo assistendo».

Qual è la matrice del terrore?
Ma c’è un altro problema che è altrettanto grave e sta impedendo di analizzare i fatti e le conseguenze che ne stanno scaturendo in maniera fredda e disideologizzata, ed è rappresentato dall’incapacità della maggior parte dei media di chiamare il nemico con il proprio nome, per il timore di essere tacciati di «razzismo» e «islamofobia». «Durante la manifestazione di domenica a Parigi, alla quale ho partecipato – racconta a Tempi Ménard – ho sentito ripetere in continuazione che “il problema è l’islamofobia”, quando il vero problema è l’islamismo radicale! I barbari che hanno ucciso la scorsa settimana dodici persone non sono dei buddisti estremisti, non sono dei cattolici integralisti, e non sono nemmeno dei protestanti fuori di senno. Sono dei fanatici islamici». E ancora: «Come molti altri giornali (Libération, quotidiano di riferimento della gauche, ha avuto l’ardire di scrivere che l’attentato di Charlie Hebdo «ha la brutta faccia di Renaud Camus, Eric Zemmour e Marine Le Pen», ndr), Le Monde ha parlato di “marcia contro il terrore”, omettendo qual è la matrice di questo terrore, ossia la matrice islamica, per paura di essere accusato di “islamofobia”. Le redazioni della maggioranza della stampa francese vivono nell’angoscia di essere additate come “razziste” e “islamofobe” e per questo non osano affiancare la parola islam alla parola terrore, dando prova di una vigliaccheria inaudita. Lo stesso discorso vale per l’antisemitismo, che è residuale nell’estrema destra francese, ed è dominante nelle banlieue dove la maggioranza è di origine arabo-musulmana. L’antisemitismo permea l’ideologia dell’estremismo islamico, ma questo i giornali non lo dicono per lo stesso identico motivo per il quale ora non dicono che i terroristi che hanno commesso la strage a Charlie Hebdo sono dei fanatici islamici».

FRANCE-PARIS-CHARLIE-HONORARY CITIZENNel clima di paura e di isteria collettiva dominante nell’immediato post-strage, così come in quello di indignazione generale che ha caratterizzato i giorni successivi, facendo passare in secondo piano l’identità e la provenienza dei responsabili, Causeur, mensile diretto dalla giornalista e intellettuale Elisabeth Lévy, si è distinto come una delle pochissime voci fuori dal coro mieloso e lava-coscienza del politicamente corretto. Nel suo editoriale, pubblicato nella mattinata che ha preceduto la grande mobilitazione, la direttrice ha scritto così: «Io marcerò, ma non provate a farmi marciare: l’unione nazionale attorno alle vittime sì, l’ipocrisia sui colpevoli no. (…) Tutti Charlie, quindi, ma mi chiedo se stiamo parlando tutti dello stesso Charlie. In ogni caso, non andiamo tutti alla stessa manifestazione. Le Monde ci invita a “marciare contro il terrore”, anche se sarebbe utile precisare qual è il terrore in questione. Ma ecco che altri eminenti commentatori come Plenel (Edwy Plenel, direttore del sito d’informazione Médiapart, ndr) invitano a manifestare contro il Front national (sic!). Clémentine Autain (militante femminista vicina al Pcf, ndr) marcerà “contro gli attacchi nei confronti dei musulmani. Contro tutte le forme di razzismo e di xenofobia. Contro i fascismi”. (…) Dei giornalisti, dei poliziotti e degli ebrei (i quattro morti nel supermarket kosher Hyper Cacher a Porte de Vincennes, ndr) sono appena stati assassinati nel nome dell’islam, e la principale minaccia sarebbe l’islamofobia?».

Per vincere la guerra
In questa gara di acrobazie linguistiche per non designare il vero nemico con il proprio nome, in questa autocensura da parte dei media e di fior fiore di personalità che inventano nemici immaginari per il terrore di essere incriminati di «islamofobia», c’è la vera «soumission» dell’Occidente. In questo angelismo che oscura la realtà, in questa ostinazione nel discorso dominante del circuito politico-mediatico a non stigmattizzare, a nascondere, a minimizzare, a edulcorare gli atti barbarici commessi da tre terroristi di cui si vogliono intenzionalmente sottacere le motivazioni religiose, ci sono le tristi premesse della nostra sconfitta contro l’ideologia islamista.

«Non ci illudiamo. Contro il terrorismo, l’emozione, la compassione, l’indignazione non saranno sufficienti», ha scritto il direttore de Le Figaro Alexis Brézet nel suo editoriale di lunedì scorso initolato “Après l’émotion, le courage”. «Per vincere, contro i soldati del califfato, questa guerra che dobbiamo deciderci a designare come tale, servirà coraggio, forza e determinazione. Sarà lunga, difficile e dolorosa. Nulla sarebbe peggiore di vedere i francesi e i loro dirigenti cedere alla vertigine della contemplazione di sé stessi, alle delizie del narcisismo mediatico, inebriarsi per lo spettacolo della mobilitazione di ieri (domenica, ndr) per cadere di nuovo domani, come dopo l’affaire Merah (l’attentatore di Tolosa che nel 2012 fece una strage davanti a una scuola ebraica, uccidendo quattro persone, di cui tre bambini, ndr), in questo rifiuto e in questo offuscamento della realtà ai quali per troppo tempo siamo stati sacrificati».

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