La mattanza dei cattolici sotto il comunismo ateo

La sconfitta del nazismo nell’Europa occidentale segnò la fine di una dittatura e il ritorno alla libertà e alla democrazia, ma nei paesi conquistati dall’Armata Rossa significò solamente il passaggio da un’occupazione a un’altra. Nei loro precedenti colloqui Churchill, Roosvelt e Stalin avevano concordato sul fatto che, nel dopoguerra, le nazioni liberate avrebbero dovuto decidere sulla loro forma di governo, ma il georgiano era in realtà intenzionato ad espandere la sua influenza: “Chi occupa un territorio, vi impone il proprio sistema sociale” ebbe a dichiarare a Milovan Gilas. Per questo motivo cominciò subito a liquidare tutti i possibili oppositori alla dominazione sovietica (eliminazioni avvenute in certe parti prima ancora della fine del conflitto) in modo da avere governi dominati da comunisti che avrebbero introdotto nei propri stati misure simili a quelle del governo comunista, come la persecuzione religiosa.

Già Lenin, infatti, andato al potere nel 1917 provvide a mettere fuori legge le religioni perché riteneva, come Marx, che fossero solo un’illusione creata dall’uomo per evadere dalla realtà (“l’oppio dei popoli”). A farne le spese più pesanti fu la Chiesa Ortodossa perché maggioritaria del paese, ma tutte le confessioni presenti in Russia ne ebbero a soffrire: negli anni ’20 sotto la Repubblica sovietica vivevano circa un milione e seicentomila cattolici che furono sottoposti a dure misure repressive fino alla fine dell’URSS. Eppure la Chiesa aveva cercato inutilmente di stipulare un Concordato e aveva offerto, durante la carestia del 1922, due milioni di dollari per alleviare le sofferenze della popolazione, ma come ha sottolineato lo storico Andrzej Kaminski «in Unione Sovietica la fede e la pratica di una religione furono a lungo motivi sufficienti per essere deportati in un campo di concentramento».

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