Uno degli aspetti più detestati dai popoli arabi prima dei recenti sommovimenti politici era l’assoluta discrezionalità degli autocrati che li governavano, svincolati da ogni potere indipendente che ne frenasse l’arbitrio. Non a caso il soprannome di Hosni Mubarak era quello di ‘Faraone’. Con la cosiddetta primavera araba, si è pensato che anche nella sponda sud del Mediterraneo attecchisse finalmente quel concetto di bilanciamento e controllo incrociato fra poteri che sta alla base della democrazia.
I segnali che arrivano ora dall’Egitto del presidente islamista Mohammed Morsi non sono molto incoraggianti. Proprio nel momento in cui Washington riconosce esplicitamente il ruolo del Cairo quale cardine di un ‘nuovo’ Medio Oriente, proprio mentre il leader egiziano viene indicato quale artefice e garante della difficile tregua fra Israele e i palestinesi di Gaza, ecco il preoccupante colpo di mano sul fronte interno. Una concomitanza che non sembra casuale: avendo appena finito di elogiarlo e di sottolineare la necessità del suo aiuto, come può ora l’Occidente attaccarlo per le imbarazzanti decisioni che umiliano la fragile e incompiuta democrazia egiziana? Eppure, dovremmo farlo: con le decisioni di questi giorni, Morsi sembra volersi atteggiare a ‘nuovo faraone’, secondo l’amaro commento fatto da Mohammed el-Baradei, a capo del fronte liberale. I decreti e le leggi presidenziali non potranno più essere impugnati, la magistratura viene di fatto asservita al potere esecutivo e, soprattutto, si danno al presidente poteri ambigui e discrezionali per «preservare la rivoluzione e la sicurezza nazionale ».
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