La primavera araba e la paura dei cristiani

Intervista con il patriarca latino di Gerusalemme, Fouad Twal: «Non si può cambiare il regime di certi Paesi senza pensare al dopo».

Andrea Tornielli 

Il patriarca latino di Gerusalemme, Fouad Twal, sorride e benedice. Sta partecipando a una cena in suo onore, in un grande albergo della città dove sono ospitati i pellegrini del Movimento Cristiano Lavoratori (MCL) che ha deciso di festeggiare il suo quarantennale finanziando la costruzione di alloggi per le coppie di giovani cristiani. «Grazie per la vostra presenza – dice Twal – e grazie perché così non ci sentiamo soli…». Vatican Insider ha intervistato il patriarca.

Qual è il suo giudizio sulla «primavera araba»?

«È un fenomeno iniziato a Tunisi, dove io sono stato per tredici anni. Era un movimento sano, genuino, provocato dalla povertà, dalla disoccupazione, dalle mancate libertà. Sono stato felice di vedere che nasceva, anche perché a guardare da vicino l’inizio della “primavera araba” si può cogliere il filo rosso che lega alcune delle richieste dei giovani con le istanze da noi rappresentate durante il Sinodo sul Medio Oriente…».

Che cosa avevate chiesto al Sinodo?

«Innanzitutto, chiedevamo ai cristiani di essere cittadini a pieno titolo, di partecipare. L’inizio della “primavera araba” era un’applicazione di quell’invito, che riguardava i cristiani ma più in generale tutta la popolazione. Mi preme far notare che quando il fenomeno è cominciato non c’erano grida contro “l’imperialismo” occidentale, né c’erano posizioni in favore del fanatismo islamico».

E come giudica, invece, ciò che è accaduto dopo?

«Anche chi non aveva partecipato, ha voluto cogliere i frutti di quanto stava accadendo. E nulla è stato più come prima. La comunità internazionale è intervenuta, sono entrati in gioco interessi politici ed economici: ognuno voleva un pezzo della torta. Un anno fa a Londra dicevo: questo movimento coinvolgerà tutti i Paesi arabi. Anche Israele non ne sarà immune. Spero vivamente che i governanti prendano in seria considerazione il disagio dei giovani e mi auguro che abbiano la capacità di capire quali riforme sono necessarie e il coraggio per attuarle, favorendo un maggiore rispetto per le persone e per le minoranze».

Dopo la Tunisia, la protesta si è spostata in Egitto, in Libia e ora in Siria… «Ciò che è accaduto in Egitto, Libia e Siria è un’altra cosa. Nel mondo arabo, nel Medio Oriente, i regimi cambiano solo se l’esercito entra in gioco. È accaduto in Tunisia e in Egitto. La Libia ha rappresentato un’eccezione: lì c’è stato l’intervento armato dei Paesi occidentali. Mi sono chiesto come mai questi Paesi abbiano scoperto solo dopo 43 anni che Gheddafi era “cattivo”. La Siria è in una situazione ancora differente. L’80 per cento della popolazione è con il regime, l’85 per cento dell’esercito è con il regime. Mi sembra difficile che avvenga un rovesciamento in tempi brevi e temo che tante altre vittime innocenti siano sacrificate. In Giordania ci sono già 78 mila rifugiati dalla Siria che sono stati censiti, immagino che in realtà siano almeno il doppio».

I cristiani hanno paura?

«Beh, se guardiamo alla situazione dell’Iraq, non possiamo nascondere che qualche timore c’è. Basta vedere che cosa è accaduto là in seguito all’import-export della democrazia con le armi. Non si può cambiare il regime di certi Paesi senza pensare a come gestire la fase successiva…».

È vero che l’emorragia di cristiani dalla Terra Santa continua?

«Sì continua. Ma vorrei anche ricordare, parlando della situazione di Israele e dei Territori sottoposti all’Autorità palestinese, che i cristiani, nella stragrande maggioranza arabi, sono parte integrante della popolazione palestinese, che vive nei territori occupati. Dico sempre ai miei amici israeliani che il persistere di questa situazione fa male a noi, fa male al popolo palestinese, ma fa male anche a loro, finisce per aumentare il rancore e allontana la speranza di tutti per una vita normale, per la pace e la coabitazione. C’è un’intera generazione nata sotto questo conflitto. Mi auguro davvero che la comunità internazionale faccia sentire la sua voce a questo proposito. Iniziative come quelle del Movimento Cristiano Lavoratori, che ha contribuito a finanziare la costruzione di alcuni alloggi per giovani coppie cristiane di Gerusalemme, rappresentano un aiuto concreto e un sostegno per evitare l’emigrazione».

Lei si è impegnato nella realizzazione di un’università cattolica in Giordania. Perché?

«Credo molto nell’importanza dell’educazione. Nelle nostre scuole ci sono ragazzi musulmani e cristiani che studiano insieme. La presenza musulmana nelle nostre strutture educative è del 30 per cento. Solo imparando a stare insieme, crescendo insieme nell’amicizia e nel rispetto reciproco, si può sperare in un futuro di pace. Per questo la nuova università cattolica è un progetto significativo per il futuro».

Di recente si sono moltiplicate azioni di sfregio contro simboli cristiani da parte di alcuni giovani ebrei. Che cosa ne pensa?

«Sono comparse scritte sui muri contro Gesù, attacchi ai cimiteri e alle statue, ci sono stati sputi e scherni verso sacerdoti e religiosi cristiani. È positivo che le autorità governative israeliane, come pure le autorità religiose dell’ebraismo, abbiano condannato questi episodi. Solo che la condanna non basta: bisogna educare i giovani, bisogna capire da chi hanno imparato a comportarsi così, perché questi episodi fanno male a noi ma fanno male allo stesso Israele. Bisogna educare al rispetto reciproco, non usare il disprezzo».

Fonte: Vatican Insider.

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