L’attesa dei civili siriani, fra l’incudine e il martello

di Rodolfo Casadei

A parte la variegata galassia degli oppositori armati, non credo che in Siria esista una singola persona favorevole ad un attacco aereo e missilistico internazionale contro le infrastrutture militari strategiche del Paese, nemmeno fra quanti odiano, per ragioni politiche e/o personali, il regime di Bashar al Assad. Sicuramente nessuno dei civili – e sono la maggioranza dei siriani – che vivono nelle aree sotto il controllo governativo. Ho trascorso una settimana, nel febbraio scorso, in due di queste aree – la capitale Damasco e la regione di Al Qamishli nell’estremo Nordest, al confine con Turchia e Iraq – e in questi giorni mi arrivano mail e messaggi nella mia chat di Facebook di siriani, conosciuti in occasione di quel reportage, che mi chiedono angosciati se davvero gli americani e i loro alleati bombarderanno la Siria. In queste ore, nel Paese, sta succedendo quello che succede sempre quando, nel corso di un conflitto, una grande operazione di bombardamento appare imminente: le forze lealiste spostano uomini e mezzi nelle aree più densamente abitate, le vicinanze di scuole, ospedali, moschee e chiese, o addirittura il loro interno, diventano il riparo per mezzi militari e stock di armamenti. I civili diventano, di fatto, scudi umani. Chi può fugge nei Paesi confinanti, ma non tutti possono: la Siria è un grande campo di battaglia, ogni viaggio che non sia brevissimo espone i viaggiatori a rischi di rapina, sequestro, uccisione. Chi resta, soprattutto nelle aree sotto controllo governative, è esposto al rischio di diventare un “danno collaterale” della spedizione punitiva contro Assad.

Non è solo questa la ragione dell’angoscia di tanti siriani: c’è anche il timore che lo sbandamento delle forze governative, subito dopo i bombardamenti occidentali, diventi l’occasione di un’offensiva dei ribelli su tutti i fronti che farà impennare il numero delle vittime, causerà ingenti distruzioni e in alcune regioni permetterà loro di prendere il sopravvento sui governativi, con grandi rischi per la sicurezza dei civili che, dall’inizio dei combattimenti, due anni e mezzo fa, hanno continuato a vivere sotto l’ala del regime ed ora saranno trattati come fiancheggiatori del medesimo.

Non che i siriani non abbiano fatto l’ “abitudine” alla guerra. Damasco alla fine di febbraio, in un momento in cui i ribelli erano particolarmente attivi e riuscivano a colpire con estrema facilità il centro della città, rimandava quell’immagine di irreale normalità che cinquant’anni di reportage di guerra ci hanno trasmesso di volta in volta dalla Saigon degli anni Sessanta, dalla Beirut degli anni Settanta e Ottanta, dalla Sarajevo degli anni Novanta.

Arrivando dal Libano, dal valico di Masnaa, la Damasco che si squadernava alla vista dopo sei posti di blocco dell’esercito toglieva il respiro: spesse colonne di fumo grigio o nero si alzavano dalle periferie, dense nuvole innaturali incombevano sul borgo di Daraya. Per le vie della città l’atmosfera era ancora più irreale: la vita cittadina scorreva indifferente come se non stesse succedendo nulla, auto, pedoni, venditori ambulanti, clienti, si muovevano su uno sfondo visivo fatto di enormi colonne di fumo e con l’implacabile sottofondo sonoro dei colpi di artiglieria – ora sordi, ora laceranti – scagliati senza tregua contro Daraya, Qadam, ecc., l’intera corona delle periferie di Damasco, tranne quelle del lato Nord. Dentro le case e i locali pubblici era la stessa cosa: famiglie e avventori ridevano e scherzavano senza pudore nonostante i rimbombi inequivocabili all’esterno. Alle tre e mezzo del pomeriggio, però, gli uffici chiudevano anzitempo per permettere agli impiegati statali di raggiungere le proprie case prima che facesse buio. In città non è mai stato proclamato il coprifuoco: un modo per convincere gli abitanti della solidità del regime e delle sue forze armate. Ma al calar delle tenebre regolarmente esplodevano le autobombe e scoppiavano battaglie a colpi di kalashnikov nei punti di contatto fra i quartieri infiltrati dalla guerriglia e quelli tenuti dal governo. Dove i posti di blocco erano tenuti in parte dall’esercito, in parte da milizie in borghese originarie del quartiere stesso: le auto che non portavano residenti a casa loro venivano fermate e respinte.

La mattina il contrasto si faceva ancora più stridente quando le scuole riaprivano i battenti. Raffiche e boati che avevano punteggiato la notte, senza un preciso motivo cessavano e lasciavano spazio a un silenzio carico di sospensione. Che veniva riempito dagli schiamazzi e dalle canzoncine dei ragazzini, per esempio quelli fra i 6 e i 10 anni che, nel cortile dei salesiani nel quartiere centrale di Saleheia, aspettavano che la loro scuola elementare desse inizio alle lezioni. Poi, in un attimo, le voci dei bambini si mescolavano alla ripresa dei tuoni di artiglieria, e la surreale combinazione si protraeva per parecchi minuti. I bambini si erano abituati alla guerra e al pericolo di esser uccisi.

Ad Al Qamishli, una regione abitata in parti quasi uguali da curdi, cristiani e arabi musulmani sunniti, colpiva il quasi totale collasso delle istituzioni: il posto di blocco all’uscita dall’aeroporto era tenuto da civili armati, così come le ronde notturne nei differenti quartieri erano affidate alla buona volontà dei residenti. Nelle due piazze più importanti della città si poteva tranquillamente acquistare benzina e gasolio di contrabbando, nel suk della città erano liberamente in vendita armi per la difesa personale. Mentre quasi ogni famiglia della città ne ospitava in casa propria un’altra, profuga da altre località siriane. I cristiani ospitavano soprattutto familiari provenienti da Aleppo e Dar Ezzor, entrambe devastate da mesi di combattimenti. Oggi a Dar Ezzor uno dei locali della parrocchia armeno cattolica, sopravvissuto ai combattimenti, è stato trasformato in aula di tribunale dove i ribelli giudicano i reati in base alla sharia. Ogni giorno arrivavano notizie di cristiani rilasciati dietro pagamenti di riscatti e di nuovi sequestri nei dintorni, sia per opera di jihadisti che di tribù beduine. Questa era ed è ancora la vita dei siriani che non hanno abbandonato la Siria. Un intervento militare internazionale la renderà peggiore di quel che è già.

Fonte: La nuova bussola quotidiana quotidiano cattolico di opinione online – L’attesa dei civili siriani, fra l’incudine e il martello.

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