«L’Inquisizione regno della tortura? Una fake news», così afferma la storica ebrea | UCCR

«L’immagine dell’Inquisizione romana come regno della tortura e del male vive ormai di vita propria, finendo per assomigliare a quelle fake news di cui oggi molto si parla». Così la storica ebrea Anna Foa, docente di Storia moderna presso l’Università La Sapienza di Roma. Un’altra specialista contro la leggenda nera, cioè la falsa vulgata anticattolica creata da illuministi e protestanti.

Il mainstream mediatico, ha riflettuto la Foa, ha erroneamente ritenuto che con l’apertura degli archivi centrali dell’ex Sant’Uffizio nel 1998, la Chiesa cattolica avrebbe preso finalmente atto del presunto carattere abominevole e sanguinario dell’Inquisizione, che nell’immaginario collettivo ancora rappresenta «il braccio armato della Chiesa nei confronti dell’eresia, del libero pensiero, della libertà di coscienza. Agli occhi dei media e al cosiddetto senso comune storiografico, l’Inquisizione era il nemico per antonomasia del pensiero moderno».

Niente di tutto ciò, ovviamente. Una delusione per giornalisti ed anticlericali, non certo per gli specialisti. Anche perché, ha proseguito la storica di religione ebraica, «nel corso dei due decenni precedenti si era già avuta una vasta rivisitazione storiografica in questo campo, che era però andata, più che nella direzione di una richiesta di perdono, nel senso di una revisione della cosiddetta immagine nera dell’Inquisizione, attraverso studi che, soprattutto nei riguardi dell’Inquisizione romana, avevano piuttosto messo in discussione il numero delle sue vittime e il suo ruolo nella persecuzione». Anche recentemente sono stati pubblicati volumi storici in difesa dell’Inquisizione, completamente ignorati dai grandi giornali (con l’eccezione di Paolo Mieli, sul Corriere). Tra quelli in lingua italiana, come abbiamo riportato su UCCR: Storia dell’Inquisizione in Italia. Tribunali, eretici, censura (Carocci 2013) di Christopher Black, storico dell’Università di Glasgow; Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori e missionari dello storico laico Adriano Prosperi, della Scuola Normale di Pisa; Caccia alle streghe della storica Marina Montesano, dell’Università di Genova; L’Inquisizione in Italia, di Andrea Del Col dell’Università degli Studi di Trieste; L’inquisizione: atti del simposio internazionale, dello storico Agostino Borromeo.

Purtroppo, si è rammaricata Anna Foa, né l’apertura degli archivi, né il contributo di questi storici ha contribuito a far entrare la verità nel «saper comune e nemmeno nell’attività di divulgazione dei media, volta più al sensazionalismo che all’accuratezza dei dati. Si era così ulteriormente accentuato il divario fra gli studi scientifici e il saper comune, e assai poco delle acquisizioni più recenti della storiografia era passato a far parte dell’immagine diffusa del terribile tribunale d’Inquisizione. Basta navigare in rete, leggere i titoli degli ultimi libri apparsi, per rendersene conto. Il fenomeno appare ancora più macroscopico se si analizza la vulgata di alcuni temi particolarmente caldi sull’Inquisizione, quali la caccia alle streghe, il processo a Giordano Bruno, l’abiura di Galilei. La divaricazione tra il sapere razionale — frutto di riflessioni, di approcci storici, di analisi documentaria — e quello mitologico è ormai invalicabile».

Così, ha concluso con poca speranza la storica de La Sapienza, «si scrive e si afferma che l’Inquisizione ha fatto milioni di morti per stregoneria con la stessa sicumera con cui si afferma che i vaccini sono la causa dell’autismo. Ma avevamo davvero sperato che l’accesso agli archivi, il crescere dei materiali a disposizione degli studiosi, il loro sapere specialistico, le loro distinzioni, potessero incrinare il regno del mito, del non sapere, del pregiudizio? Ma perché avrebbe dovuto essere così? Gli ultimi vent’anni, che sono quelli passati dall’apertura degli archivi, sono anche quelli che hanno visto il crescere nella società tutta della fabbrica mitologica, l’affermarsi di strumenti molto più utili alla sua affermazione della carta e delle stesse immagini, l’abbattimento delle barriere fra il vero e il falso, fra il sapere e il non sapere, fra la realtà e la finzione. Passioni e pregiudizi prevalgono su sapere e conoscenza. Gridano più alto. Nessun archivio — dovremmo saperlo, dovremmo averlo imparato dagli eventi dei secoli passati — può avere la meglio su di essi, nessun documento può confutare un pregiudizio consolidato, mettere in crisi uno stereotipo».

Da parte nostra non siamo così pessimisti come la Foa, le -seppur poche- persone realmente interessate hanno infatti sempre più strumenti informativi per accedere a quel che gli specialisti già da tempo sanno. Già il fatto che una storica del suo calibro, appartenente ad un’altra religione (quella ebraica), abbia percepito l’ignoranza e la malafede dilagante su queste tematiche è un buon motivo per ben sperare nel futuro.

La redazione

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