Marocco, cattolici in libertà (vigilata)

Viaggio tra le comunità del paese africano sfiorato dalla rivoluzione araba. Un paese dove la chiese sono aperte ma nel quale la Chiesa può parlare solo agli occidentali

Davide Demichelis

Per capire il Marocco, bisogna guardarlo da fuori. Padre Jean Marie Lassausse vive a pochi chilometri dal confine, in Algeria. E’ il giardiniere di un monastero dalla storia molto particolare: Tibhirine. Qui, la notte del 26 marzo 1996, sette monaci trappisti sono stati rapiti e uccisi dai terroristi del Gruppo islamico armato.

Proprio da quel monastero, padre Jean Marie guarda al Marocco e dice: “Lì l’atmosfera è gioiosa e festiva, perché c’è la libertà”. Già, la libertà: ad esempio in Marocco le chiese possono anche stare sempre aperte. I marocchini non possono entrare (un musulmano non può convertirsi ad un’altra religione) ma chi professa altre fedi può pregare liberamente, persino al di fuori dei luoghi di culto. Non è poco. Lo sa bene padre Pierre Vallessey, missionario francese che sulle montagne dell’Alto Atlante ha commesso l’imprudenza di recitare una preghiera insieme ad un gruppo di immigrati dell’Africa centrale, dopo aver distribuito le coperte per la notte. La polizia lo ha immediatamente arrestato ed espulso. Era in Algeria, vicino al confine col Marocco. “La nostra è una comunità di presenza – sottolinea padre Jean Marie – non possiamo fare proselitismo”.

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