Medicina e Persona

Finire la vita in modo volontario è realmente un vulnus fortissimo per tutta la società. Già questo taglierebbe la testa al toro delle proposte di eutanasia o di suicidio assistito. Ma anche nel dettaglio le proposte non sono tutto rose e fiori. Per poter dare un parere completo sulla tanto discussa novità dell’eutanasia infantile di cui si discute in Belgio e che già è in atto in Olanda, seguendo il ben noto «Protocollo di Groningen», bisogna guardare il vero punto: l’interesse del bambino. Si parla di coinvolgerlo nel decidere «cosa è intollerabile per lui» e in particolare per il suo futuro. Ma nel bambino è assolutamente difficile poter avere un pensiero che possa investire sul futuro dato che per chi è troppo piccolo questo non è realistico e che per l’adolescente il futuro è qualcosa troppo legato al presente come esperienza. E cosa sa un bambino del peso futuro di una vita con un possibile handicap, se per lui conta giustamente solo l’oggi? Ma anche quando si pensa che la vita con un handicap sia impossibile, si può restare smentiti; da chi l’handicap ce l’ha e ci convive, per esempio, ma non solo. «In realtà non c’è una relazione lineare tra danno neurologico e ’sofferenza insopportabile’ o ’scarsa qualità di vita’». Così scriveva in un editoriale sulla rivista svedese Acta pediatrica John Wyatt dell’Imperial College di Londra.

E in questa incertezza sarebbe l’interesse del bambino finire di vivere?
Ma c’è anche un altro punto allarmante: decidere, nell’interesse di chi? Michael Gross già nel 2002 su Bioethics scriveva che nei dati provenienti dalle nazioni da lui prese in considerazione – Israele, Inghilterra, Usa e Danimarca – emerge che «c’è un appoggio generale al neonaticidio soggetto alla valutazione che i genitori fanno dell’interesse del neonato, definito fino a considerare il danno fisico così come il danno sociale, psicologico e/o finanziario a terze parti». Ed è proprio questo punto delle terze parti che va considerato: in ogni decisione medica si deve sempre tenere conto solo e soltanto dell’interesse del paziente e non di altri, fosse anche la società stessa o il presunto interesse dei parenti esausti o abbandonati dallo Stato. Aprire all’eutanasia lo garantisce?

Nel campo del fine vita si vanno poi a considerare i neonati in modo diverso dagli altri. Sul Journal of perinatology del maggio 2013 Annie Janvier spiega che le decisioni sul fine vita di neonati o di bambini più grandi dovrebbero essere fatte seguendo gli stessi criteri, invece «quando un neonato è a rischio di un certo livello di disabilità, alcuni ritengono accettabile sospendere o negare la terapia salvavita mentre un bambino più grande con lo stesso livello di disabilità può non essere considerato un candidato per le (sole) cure palliative». E in questi anni abbiamo assistito a proposte di «aborto postnatale», oppure di un valutare le scelte su basi «innovative»: «Quando si può permettere a un bambino di morire, basandosi sulla futura qualità di vita?» si domandava Wilkinson sull’ American journal of bioethics del 2011, e rispondeva: «La visione ufficiale prevalente è che il trattamento possa essere sospeso solo quando i pesi della vita futura saranno maggiori dei benefici». Già questo lascia il dubbio su chi debba o possa valutare che su queste basi la vita non merita di essere vissuta. Ma poi aggiunge, argomentando le motivazioni, a proposito di quei bambini in cui i futuri benefici sono un po’ maggiori dei futuri pesi: «Io concludo che è giustificabile in certe circostanze decidere di permettere a un bambino di morire anche se la sua vita varrà la pena di essere vissuta». Sembra di veder spostare la centralità dell’interesse dal paziente alla comunità che non sa come accudirlo. Ma questo non è il pensiero di tutti i medici.
In Italia il dibattito sul fine vita pediatrico è stato sollevato da più parti ed è durato finché il Comitato nazionale di bioetica ha sancito nel 2006 che non si può «qualificare accanimento terapeutico il mero fatto che un neonato prematuro venga subito sottoposto a cure intensive al momento della nascita» pur nell’attenzione a non iniziare cure che già si sanno inutili a salvare la vita, e che «la mera previsione di una disabilità, anche grave, ma compatibile con la vita, destinata a colpire il neonato prematuro non può giustificare la desistenza delle cure a suo favore». Insomma, la sofferenza deve essere valutata con gli strumenti giusti e non solo ipotizzata, mettendosi surrettiziamente al posto del malato e pensando «io non l’accetterei».
A cura di Carlo Bellieni
(Avvenire, E’ Vita, 27/06/2013)
                                                                                                                                                     La Redazione

Fonte: Medicina e Persona.

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