Modi, il premier che fa paura alle minoranze – La Nuova Bussola Quotidiana

di Stefano Magni

India, dopo un lunghissimo processo elettorale nella più popolosa democrazia al mondo, circa 800 milioni di cittadini aventi diritto al voto hanno scelto il Bjp, il partito nazionalista indù. Il nuovo premier è Narendra Modi, che ha vinto una duplice battaglia: la difficile selezione per la guida del suo partito e l’altrettanto difficile elezione alla guida dell’India. Ora che è lui il premier, dipenderà da Modi la soluzione della lunga crisi con l’Italia, attorno alla detenzione dei fanti di marina Latorre e Girone. Le idee e le numerose manifestazioni anti-italiane del Bjp non fanno ben sperare. Ma si prevede che Modi, almeno all’estero, si comporterà da leader pragmatico. Forte di una solida maggioranza, non deve mostrare i muscoli contro un rivale in crescita ed era questa la motivazione della prudenza mostrata dal suo predecessore Manmoan Singh sul caso italiano. Modi sarà più libero da condizionamenti interni e all’estero dovrà, prima di tutto, le paure della comunità internazionale. I timori maggiori sono, semmai, all’interno dell’India.

Perché Modi è un personaggio controverso anche all’interno del suo stesso gruppo. «Narendra Modi è un uomo controverso, violento e autoritario, che distruggerà il suo stesso partito, il Bharatiya Janata Party (Bjp)» – commentava un anno fa su Asia News P. Cedric Prakash sj, direttore del centro per i diritti umani, la giustizia e la pace Prashant. La sua vittoria all’interno del Bjp aveva appena provocato le dimissioni, per protesta, di LK Advani, leader storico nazionalista.

Perché Modi fu un militante del Rashtriya Swayamsevak Sangh (Rss) fin dal 1971, subito dopo la guerra indo-pakistana. L’Rss è tuttora il braccio armato, paramilitare, dei fondamentalisti indù, responsabile delle violenze contro le minoranze musulmane e cristiane, contro i fuori-casta e i marxisti. È il lato oscuro della medaglia in un’India sempre riconosciuta come un esempio di coesistenza fra religioni. Eletto alla carica di primo ministro dello stato del Gujarat nel 1998, è tuttora al centro di una polemica su un dubbio molto grave: fu lui ad alimentare uno dei peggiori pogrom religiosi della storia recente indiana? Il 27 febbraio 2002, il treno Sabarmati Express, che trasportava quasi solo militanti e religiosi induisti da Ayodhya a Ahmedabad, venne fermato alla stazione di Godhra da una folla di musulmani e prese fuoco in circostanze tuttora misteriose. Morirono 58 persone, in gran parte donne e bambini. Fu soprattutto Modi a non avere dubbi sulla natura dolosa dell’incidente, avvenuto nel suo stato, e a dare subito la colpa ai “terroristi islamici” per l’incendio.

La scintilla delle sue dichiarazioni non tardò a far scoppiare l’incendio. Folle inferocite e armate di indù, già dal 28 febbraio, attaccarono le minoranze musulmane in tutto lo stato del Gujarat. Il pogrom assunse i contorni di un vero e proprio genocidio, soprattutto per le modalità degli attacchi, sistematici e ben organizzati, tanto da far pensare a mesi di pianificazione, non a una violenza spontanea. La comunità islamica pagò un prezzo altissimo: degli oltre 1.000 morti accertati, 790 erano musulmani e 254 indù. Almeno 253 persone furono dichiarate disperse; 523 luoghi di culto, comprese tre chiese danneggiate; 27.901 indù e 7.651 musulmani vennero arrestati. Feriti e sopravvissuti riportano tuttora traumi indelebili per la ferocia e il sadismo con cui gli assalitori si accanirono su civili, donne e bambini, torturandoli, bruciandoli vivi, squartando ed esponendo i corpi al pubblico ludibrio. Circa 150mila musulmani e 10mila indù dovettero abbandonare le loro case. La reazione lenta (e in molti casi la passività completa) della polizia locale di fronte a questo enorme massacro, venne anch’essa imputata a precise scelte di Modi. Tuttavia, dieci anni di indagine e processo lo hanno per ora scagionato: non ci sono prove sufficienti che possano portare alla sua condanna. Era lui al vertice dello stato del Gujarat. Gli eccidi vennero compiuti da nazionalisti. Ma nessuno ha potuto imputargli una “responsabilità oggettiva” di quanto avvenne 12 anni fa.

Ora che è premier, non pochi esponenti della minoranza cristiana indiana esprimo timori per il loro futuro. Sajan George, presidente del Global Council of Indian Christians (Gcic), dichiarava all’agenzia missionaria Asia News, alla vigilia dei risultati elettorali: «Alcuni Stati indiani guidati dal Bjp hanno testimoniato in modo regolare un aumento degli attacchi e delle violenze anticristiane; altri hanno mostrato entusiasmo nell’applicare le leggi anticonversione».

Sempre Sajan George, durante la corsa al voto, descriveva un Bjp intento a condurre «una campagna elettorale con una estrema impronta fondamentalista; la promessa di buttare fuori tutti i migranti bangladeshi (e musulmani); i riferimenti alla ‘rivoluzione rosa’ (la fine delle esportazioni di carne di mucca, ndr); la demonizzazione della città di Azamgarh, indicata come “culla del terrorismo”». Inoltre, «nella sua campagna elettorale Narendra Modi non ha mascherato una forte preferenza per le caste più alte. Siamo preoccupati per i 200 milioni di dalit che vivono nel Paese. I più a rischio saranno i fuoricasta cristiani e musulmani, che per colpa di una legge del 1950 non godono di diritti politici, economici e sociali».

A elezioni vinte, l’attuale ideologo del Rss, ha iniziato a elencare alcuni punti del suo programma, fra cui l’abolizione dello statuto speciale del Jammu e Kashmir, la regione musulmana contesa con il Pakistan fin dal 1948, e di introdurre un codice civile uniforme per tutte le denominazioni religiose. Tornando al tasto dolente del Gujarat, Vaidya ha proclamato l’intenzione di costruire il tempio di Ram a Ayodhya, il punto di provenienza degli indù uccisi nell’incidente di Godhra. Lo vuole edificare sulle rovine della moschea di Babar, rasa al suolo dai nazionalisti nel 1992.

Il problema più grande, è quello della tenuta di un’India multi-religiosa, una gigantesca pentola a pressione con oltre un miliardo di abitanti.

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