Morte della Primavera Araba: necrologio giornalistico o realtà? | Da Porta Sant’AnnaDa Porta Sant’Anna

La settimana di scontri che ha devastato l’Egitto, iniziando dallo smantellamento dei campi dei Fratelli Musulmani di Rabaa al-Adaweya ed el-Nahda il 14 agosto, ha riempito le prime pagine dei giornali di tutta la stampa occidentale. Nella stragrande maggioranza il messaggio trasmesso è che la fine del presidente Morsi ha rimesso al potere il sistema dittatoriale del vecchio governo Mubarak. A questo segue quasi invariabilmente che la primavera araba non è solo morta, ma è sepolta insieme a quel migliaio di morti massacrati dalle forze dell’esercito.

Questa lettura degli eventi è contraddetta dalla stragrande maggioranza dell’opinione pubblica egiziana, incluso dal comunicato di Mons. Ibrahim Isaac Sedrak, presidente dell’Assemblea dei Patriarchi e dei Vescovi Cattolici. Il patriarca dichiara in un conferenza stampa del 19 Agosto: “Ci rivolgiamo alla coscienza mondiale ed a ogni capo di stato perché comprendano e credano che ciò che accade in Egitto ora non è un conflitto politico tra fazioni diverse, ma una lotta di tutti gli Egiziani al terrorismo.

Di fronte a due interpretazioni così contrastanti degli eventi, è necessario interrogarci se ci troviamo di fronte ad un deja-vu di miopia occidentale nelle vicende del Medio Oriente o d’impune manipolazione dei fatti da parte di chi detiene il potere di turno nei paesi Arabi. Da una parte l’America e l’Europa si sono fatte paladine di principi democratici in Egitto nel denunciare la dura repressione di chi protestava “pacificamente” e dall’altra sembrava scordare una pratica ormai nota di giustificare l’ uso della violenza per la difesa e l’esportazione della democrazia al di fuori dei propri confini ed al di dentro dei propri interessi. Dall’altra si vede il vecchio presidente Hosni Mubarak fuori dal carcere perché assolto dall’accusa di violenza contro le dimostrazioni popolari, accusa che invece mantiene agli arresti l’attuale presidente Morsi. Il caso sembra dichiarare, invece, che la verità degli eventi è meno unilaterale di come entrambe le parti l’abbiano descritta, al di dentro ed al di fuori dell’Egitto. Alcuni fatti lo dimostrano chiaramente.

La fine del presidente Mohamed Morsi democraticamente eletto il 30 giugno del 2012 è avvenuta con la dichiarazione degli arresti domiciliari il 3 luglio del 2013 da parte del suo ministro della difesa, nonché da lui nominato capo dell’esercito Abd al-Fattah Khalil al-Sisi. Di fatto era iniziata nel novembre del 2012 quando il presidente Morsi aveva assunto poteri dittatoriali per “difendere” la democrazia e di fatto forzare una costituzione di parte sull’intera popolazione, dissolvendo il parlamento. Da lì trae ispirazione l’iniziativa popolare chiamata “tamarrud” (ribellione) che ad un anno dall’elezione di Morsi (con una scarsa maggioranza di 13 milioni di voti) annunciava la raccolta di 22 milioni di firme per ottenere elezioni anticipate.

Il presidente avrebbe potuto negoziare in maniera pacifica un accordo per nuove elezioni, visto che la possibilità di un’incriminazione parlamentare (impeachment) non era possibile per una “conveniente” assenza di un parlamento da lui stesso dissolto. Invece lancia un “appello al martirio”, affermando di voler proteggere la democrazia con la sua stessa vita ed ignorando la presenza di circa 30 milioni di cittadini nelle piazze che vede il paese bloccato in un rapido decadimento economico e politico. L’annuncio viene raccolto dalla base della Fratellanza, e così quello che viene letto nell’occidente come repressione cruenta va registrato più appropriatamente come istigazione al “suicidio popolare” o martirio collettivo.

Che il paese fosse al tracollo, e che la protesta più che ideologica fosse nuovamente motivata da ragioni di sopravvivenza, era ovvio a tutti. Basti ricordare che dalle dimissioni di Mubarak le riserve di valuta estera erano diminuite del 30 per cento ed i tassi di interesse sul debito pubblico con scadenza ad un anno avevano raggiunto il 14 per cento. La caduta verticale del turismo ed episodi sempre più frequenti di criminalità impunita avevano fatto il resto. Dall’altra l’offerta d’aiuto dell’ FMI a Morsi richiedeva scelte così impopolari che non era mai arrivato a termine lasciando il paese in buona parte scoperto ed al tracollo.

Un giornalismo interno più obbiettivo non potrebbe negare ora che parte di questo degrado non era solo demerito di Morsi e del partito Libertà e Giustizia (il braccio politico del movimento religioso dei Fratelli Musulmani) ma la resistenza interna di un sistema di privilegi istituzionali del passato allora messi a rischio dalla minaccia di una lotta alla corruzione dilagante del paese. Un esempio fra tanti è la “miracolosa” riapparizione della polizia sulle strade, ad un anno di virtuale assenza, giusto il giorno seguente alla deposizione di Morsi.

Purtroppo questa mancanza di verità di una stampa tendenzialmente troppo asservita agli interessi di chi detiene il potere seguiva la stessa logica nel governo precedente. Morsi stesso aveva cambiato di punto in bianco molti dei direttori dei giornali e televisioni di stato una volta salito al potere, e nella stessa maniera che avveniva ai tempi di Mubarak, ne emergeva una stampa che faceva da cassa di risonanza alla propaganda politica di chi il potere lo deteneva ed ignorava palesemente i fatti che ne denunciavano le mancanze.

A questo punto è necessario diffidare dei necrologi giornalistici che dichiarano la fine della primavera araba un giorno o magari la fanno riemergere trionfalmente il seguente. Alcuni punti fermi al riguardo si possono comunque affermare. L’Egitto non ha ancora una chiara idea sul cammino da seguire ma ha una certezza: indietro non si può più andare. La primavera araba ha sancito questo: il popolo che manifesta il suo dissenso è più forte del governo di turno, dell’esercito sempre “opportunisticamente” presente, e della stampa “fluida” di parte. Lo stesso popolo che ha deposto Mubarak prima ed in seguito Morsi, deporrà il seguente se le riforme attese saranno solo propaganda giornalistica. E questo non è poco anche di fronte all’autunno delle vecchie democrazie nostrane dove il popolo vive più da vittima passiva del potere ed i suoi “megafoni” che attore di riforme interne ormai improrogabili.

Lo scenario politico dell’Egitto, descritto dalla stampa estera come un fronte tra due estremismi, il fondamentalismo islamico e la vecchia guardia dell’esercito, di fatto si delinea più chiaramente tra chi ha l’interesse solo per una parte del paese o di tutto. Nel primo gruppo c’era Mubarak e Morsi, nel secondo una composizione moderata in cui non solo i musulmani ma questi insieme ad un nascente attivismo politico della minoranza cristiana. Questo è chiaramente un elemento nascente della rivoluzione del 2013 e d’importanza molto rilevante.

Questi lenti e fievoli inizi di trasformazioni interne, comprensibili a chi vive nel paese ma spesso ignorati da chi li giudica a distanza o con gli occhi del turista sulle spiagge del Mar Rosso, sono di fatto solo ed ancora delle piccole gemme sull’albero di una democrazia orientale che sarà inevitabilmente diversa da quelle di stampo occidentale. Ma di gemme si tratta e la stagione della primavera sembra essere una definizione ancora del tutto consona.

Giovanni Esti, missionario comboniano presso il Cairo

Fonte: Morte della Primavera Araba: necrologio giornalistico o realtà? | Da Porta Sant’AnnaDa Porta Sant’Anna.

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