Myanmar Etnia e religione miscela esplosiva

di Anna Pozzi
Nella ex Birmania il governo centrale ha firmato accordi con tutte le minoranze. Tranne i rohingya musulmani e i kachin cristiani. E c’è chi parla di genocidio

Tatmadaw colpisce dal cielo e da terra. È mano di morte la sua. Davide contro Golia. Tatmadaw, ovvero l’esercito birmano, combatte con armi pesanti e raid aerei contro la guerriglia indipendentista kachin, su nel nord del Paese, al confine con la Cina. Da una parte, la mano armata del governo, che rappresenta la maggioranza bamar e buddhista, dall’altra una minoranza etnica e religiosa, i kachin, che dalla colonizzazione inglese hanno ereditato la fede cristiana. Oggi la Bibbia  è il loro libro sacro, ma anche un vessillo identitario. I loro preti sono pastori e partigiani. Quella che oggi si chiama l’Unione del Myanmar è un Paese tutt’altro che unito. E il dramma dei kachin non è la sola tragedia a dimostrarlo.Dall’altra parte del Paese, nello Stato Rakhine, al confine con il Bangladesh, sono i rohingya a subire l’offensiva della popolazione locale. Buddhisti contro musulmani. Circa duecento morti dal giugno del 2012, quando sono ripresi i combattimenti, e almeno 110 mila sfollati e profughi rohingya. Molti hanno tentato la via di fuga verso il Bangladesh, di cui sarebbero originari, ma che non li vuole. Anche il Myamnar non li riconosce. Esclusi dalla lista delle 135 etnie riconosciute, sono un popolo senza nazione.Anche qui, da una parte, moschee chiuse durante il Ramadan per decreto governativo, dall’altra, templi buddhisti dati alle fiamme per ritorsione. Eppure, a guardar bene, è difficile etichettare entrambe queste crisi come “guerre di religione” tout court. Perché, in tutti e due i casi, questi conflitti – in cui la religione entra prepotentemente – nascondono altre questioni, che con la fede c’entrano ben poco.C’entrano piuttosto gli interessi di un gruppo di potere che, svestiti gli abiti militari, non ha ancora indossato davvero quelli della democrazia e del pluralismo. Pluralismo politico, ma anche etnico e religioso. Pluralismo di voci e garanzie di libertà e diritti. Per tutti. Non è ancora così nel nuovo Myanmar, che cerca di risorgere da una delle più lunghe dittature della storia contemporanea e dall’abisso in cui lo hanno trascinato i generali negli ultimi decenni, riducendolo a uno dei Paesi più poveri, oppressi e corrotti al mondo. Il nuovo presidenteThein Sein ha dato segnali importanti di apertura sul fronte politico, liberando dagli arresti domiciliari (dopo le presidenziali del 2010) la leader storica dell’opposizione Aung San Suu Kyi (e molti altri dissidenti). E ha permesso al suo partito, la National League for Democracy (Nld) di partecipare con successo alle elezioni legislative dell’aprile 2012. Sul fronte economico e internazionale, ha invece ottenuto la cancellazione dell’embargo da parte di Unione Europea e Stati Uniti, aprendo di fatto il Paese a nuovi e importanti investimenti e scambi commerciali.

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