Nelle grotte di Darkush: l’ultimo rifugio dei siriani

​Arrampicati come camosci sulle rocce, si spostano da una grotta all’altra per prendere vestiti, coperte, acqua e provviste. «In una mettiamo cibo, legna, piatti e bicchieri; nell’altra invece mangiamo e dormiamo». Benvenuti a Darkush, l’ultima frontiera della disperazione siriana, dove i profughi che fuggono dalle bombe non riescono ad accedere neanche ai campi e vivono nelle caverne. È in quest’angolo di paradiso, in una specie di sorprendente Irlanda siriana 325 chilometri a nord di Damasco, che un centinaio di persone si sono stabilite da più di mese nelle grotte.Senza acqua, bagni, luce, materassi e medicine. Senza il supporto di nessuna organizzazione non governativa o caritatevole. Vivono sotto la pioggia e il vento che entra dai tendoni di plastica piazzati a mo’ di porta, col costante rischio di volare giù da tre, quattro a volte anche cinque metri di altezza. I bambini sembrano giocolieri tra i massi. Li raggiungiamo nelle grotte tramite un’ingegnosa scala scavata nella terra dai capifamiglia. La loro giornata ruota intorno ad un’unica cosa: l’acqua. Si va al pozzo, si prende, si solleva, si trasporta, si bolle o s’imbottiglia. C’è chi rinuncia alla propria igiene e c’è chi invece con enormi sacrifici lava se stesso e i propri panni.Un’anziana con un gran pentolone d’acqua bollente fa il suo bucato in strada. «Guardate come ci siamo ridotti – dice – guardate dove viviamo». La donna indica una ex stalla. Più avanti sulla stessa strada statale di Darkush si trovano più caverne, una volta riparo per greggi e mandrie di vacche. Una famiglia saluta dall’alto. «Siamo di Hamamo», racconta Sbeida, 40 anni e dieci figli, l’ultimo ancora attaccato al seno. Hamamo è un villaggio di Idlib che dista meno di dieci chilometri da Darkush. «Siamo fuggiti il mese scorso dopo l’inizio dei bombardamenti, non possiamo tornare, è ancora troppo pericoloso».Da dentro la grotta si sente il rimbombo dei mortai. Sarà ancora Hamamo, o forse Yakubieh il villaggio cristiano vicino? Nella geografia del conflitto sembra non aver più importanza il dove e il chi: si combatte sempre, ovunque, una guerra che in molti, da una parte e dall’altra, si son pentiti di aver iniziato. Sessantamila morti in quasi due anni, oltre tre milioni di sfollati interni e più di seicentomila profughi riparati in Turchia, Libano, Giordania e Iraq. Persone che vivono in condizioni definite dalle stesse agenzie umanitarie «intollerabili».

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