Normalizzare aborto o abortire la normalizzazione | Tempi.it

novembre 24, 2014Aldo Vitale

L’interruzione di gravidanza è qualcosa di assolutamente normale e non traumatico, scrive Katha Pollitt su Internazionale. Confutazione

internazionale-copertina-abortoSu recente numero 1078 de Internazionale del novembre 2014, è stato pubblicato un lungo servizio sotto il titolo “Libere di abortire” ricomprendente due articoli della nota attivista femminista statunitense Katha Pollitt.

La suddetta saggista, in sostanza, tra espressioni tanto semanticamente forti quanto eticamente e filosoficamente deboli come “coercizione riproduttiva”, “pulizia del ventre” e “aborto come autodifesa”, espone tre idee fondamentali: l’aborto è una scelta esclusiva della donna sul proprio corpo; l’aborto è la prova che la donna non è nata per essere madre come pretende la società maschilista e fallocrate odierna; l’aborto è qualcosa di assolutamente normale e non traumatico.

La Pollit, infatti, in primo luogo si duole del fatto che «la parte più privata del corpo di una donna e la decisione più privata che potrebbe dover prendere nella sua vita non sono mai state così pubbliche».

In secondo luogo, si chiede «cosa c’è di così virtuoso nell’aggiungere un altro bambino a quelli dai quali si è già sopraffatte?» e ribadisce che alle donne l’aborto «ha cambiato il loro modo di vedere se stesse: non più madri per destino, ma per scelta […]. Negare alle donne il diritto di interrompere la gravidanza è l’altro modo di punire le donne per il loro comportamento durante la gravidanza, e se non proprio punire, almeno controllare».

In terzo luogo, prescrive che dell’aborto si parli diversamente: «Dobbiamo parlarne, e dobbiamo farlo in modo diverso. Non come qualcosa che tutti giudichiamo negativamente e che ci fa scuotere tristemente la testa […]. Dobbiamo parlare dell’aborto come di un evento comune, perfino normale nella vita riproduttiva delle donne, e non solo delle moderne donne statunitensi, ma delle donne nella storia e in tutto il mondo».

Delle brevi osservazioni di carattere bio-giuridico devono, dunque, essere avanzate data la delicatezza, l’importanza e la complessità del tema.

Sulla prima questione: nonostante sia largamente condivisa l’idea che l’aborto possa riguardare una parte del corpo, la più privata perfino, della donna così non è, per il semplice motivo che da un punto di vista squisitamente scientifico, rectius biologico, e indipendentemente dalla propria visione morale, religiosa o ideologica di riferimento, sia essa pro choice o pro life, il soggetto abortito non è una semplice parte del corpo di una donna, ma semmai un tutto geneticamente autonomo e come tale già individuo. Così si legge, infatti, non già negli opuscoli di pericolosi e liberticidi fondamentalisti religiosi pro life, ma nei manuali scientifici per la formazione medica; così, come esempio tra i tanti, si legge nell’autorevole manuale di embriologia di Keith Moore – T.V.N. Persaud, Lo sviluppo umano prenatale dell’uomo. Embriologia ad orientamento medico, EdiSes, Napoli, 2009: «Lo sviluppo umano comincia in corrispondenza della fecondazione, quando un gamete maschile o spermatozoo si unisce con un gamete femminile o oocito per formare una singola cellula, lo zigote. Questa cellula totipotente altamente specializzata segna l’inizio di ciascuno di noi come un individuo unico» (pag. 15).

Così anche nel manuale di Pasquale Rosati, Embriologia generale dell’uomo, Edi-Ermes, Milano, 2004, in cui si spiega che la fecondazione, cioè la fusione della cellula maschile, spermatozoo, e di quella femminile, oocita, è indispensabile «per dar vita al nuovo individuo» (pag. 5).

L’aborto, dunque, non riguarda una mera parte del corpo della donna, ma la vita di un altro individuo, tale come la scienza assicura, al di là di ogni ulteriore considerazione etica, filosofica, giuridica e religiosa. Ritenere il contrario, cioè condividere la posizione erronea della Pollit, è quindi assolutamente anti-scientifico, sebbene per questo non legittimo, o almeno non più di quanto lo sia l’idea chi oggi volesse continuare a sostenere il sistema tolemaico invece di quello copernicano.

Sulla seconda questione: l’idea che la donna sia tenuta a diventare madre solo come risultato di una imposizione socio-culturale da parte del maschio dominante è ormai, per quanto pur diffusa, del tutto superata, come dimostra il fatto che proprio le posizioni femministe più estreme sono le massime sostenitrici oltre che dell’aborto anche della procreazione medicalmente assistita.

L’idea che una donna non possa procreare e che invece abbia il diritto di farlo è proprio alla base delle modernissime e recentissime legislazioni in tema di PMA, tanto che proprio negli ambienti dell’intellighenzia più progressista si parla di un vero e proprio diritto al figlio che giustificherebbe la legalizzazione della PMA, perfino di quella eterologa o dell’utero in affitto (quest’ultimo talvolta all’un tempo malvisto da certe femministe, come si evince dal volume di Carmel Shalev dal titolo Nascere per contratto, Giuffrè, Milano, 1992), come espresso dal dibattito pubblicato sul recente numero 7/2014 di Micromega.

Tuttavia, spesso accecati dal furore ideologico, non si riflette opportunamente. La coesistenza di due normative come quella sull’aborto e quella sulla PMA all’interno del medesimo ordinamento giuridico comporta delle difficoltà di non poco conto, proprio a partire dalla concezione della donna.

Se nella prima la vita viene subita, nella seconda viene pretesa. Se nella disciplina sull’aborto la vita viene vista come una prevaricazione della libertà della donna, nella normativa sulla PMA essa – la libertà – si compie e si perfeziona soltanto tramite la maternità. Se nella prima viene difeso il diritto alla libertà decisionale della madre svincolata dalla vita, nella seconda la libertà decisionale della madre orbita soltanto intorno alla vita. Se nella prima la volontà della donna incide sulla vita, nella seconda la vita incide sulla volontà della madre. In sostanza la donna che reclama l’aborto, per essere davvero tale non deve e non vuole essere madre; mentre invece la donna che reclama la PMA non può e non vuole essere tale se non come madre.

Questa divaricazione di fondo, nei fini e nei mezzi, si ricompone, tuttavia, considerando l’antropologia di riferimento e la piattaforma filosofica sottostanti ad entrambe le pretese, abortiva e procreativa, cioè l’idea che gli uomini, anzi le donne in questo caso, altro non siano che soltanto “soggetti di desiderio”, per usare la nota formula della filosofa femminista Judith Butler, e che, conseguentemente, il diritto altro non sia che il momento e la tecnica di formalizzazione solenne dei desideri umani, sempre diversi, che si cristallizzano in diritti, sempre nuovi.

L’idea della Pollit rivela quanto distorta sia, insomma, la visione della donna intesa come incarnazione di una volontà assoluta in grado di decidere della vita e della morte del nascituro, e perfino di quali distorsioni e aberrazioni si introducano, sposando l’idea di essere “libere di abortire”, nel mondo del diritto, a cominciare dalla natura e dal ruolo di quest’ultimo.

Sulla terza questione, forse la più filosoficamente interessante, occorre ricordare, nonostante ciò che in contrario reputino la Pollit ed i suoi sostenitori, che l’aborto non è per nulla un evento normale e non traumatico.

Anche qui la scienza è d’aiuto. Nonostante la rivista Internazionale riporti in calce a pag. 46 uno studio pubblicato su Harvard Review of Psychiatry del 2009 secondo cui non vi sarebbero ripercussioni psichiche sulla donna che ha abortito volontariamente, lasciando intendere che non vi sarebbero evidenze scientifiche sulla cosiddetta PAS, cioè Post-Abortion Syndrome, ovvero Sindrome Post-Aborto, sembra che si ignorino tutti gli altri numerosissimi ed autorevoli studi scientifici che invece dimostrano quanto l’aborto sia traumatico per la dimensione psichica della donna che vi incorre, pur volontariamente.

Tra tutti si può ricordare quello a firma di Carlo Bellieni pubblicato nel 2013 su Psychiatry and clinical neurosciences sulle conseguenze psichiche negative dell’aborto volontario o anche lo studio pubblicato nel 2004 sulla prestigiosa ed autorevole rivista Human Reproduction sull’aumentato fattore di rischio di nascite pretermine per quelle donne che hanno già avuto un aborto volontario.

Al di là del dato scientifico, tuttavia, ciò che colpisce è l’idea che l’aborto debba essere necessariamente considerato come un normale evento nell’esistenza della donna; la Pollit, forse, non si rende conto che un tale evento potrebbe anche essere considerato pur normale in riferimento all’esistenza dell’abortente, ma non di certo in riferimento all’esistenza dell’abortito che per l’appunto viene radicalmente negata.

Sembra opportuno, allora, ricordare proprio le parole di un celebre giurista dello spessore di Giuseppe Capograssi che in ordine al desiderio della cultura contemporanea di normalizzare tutto ciò che non lo è così ebbe a scrivere: «Di qui lo scambio così caratteristico che la nostra epoca ha fatto dell’anormale per il normale; l’abolizione anzi dell’anormale come tale; la canonizzazione di tutti gli impulsi e le ossessioni anche le peggiori come cose normali e lecite».

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