«Papà» non è una parolaccia!

martedì 19 marzo 2013 – Luisella Saro

«Padre mio, / uomo sublime / che il ciel mi ha messo accanto / sol pochi anni della mia vita, / tu già canuto, io giovane ancora; / ho mosso i primi passi in questo mondo / all’ombra tua, protetto, sempre amato. / Eri fiero di me, mi davi tutto, / trascuravi te stesso pur di fare / ad ogni costo la mia vita felice. / Discreta protezion che non pesava, / parlava al cuor l’esempio di tua vita; / tu t’imponevi col sorriso in volto, / con la dolcezza tenera, infinita. / E che ricordo gli ultimi momenti / di tua stanca esistenza, quando forte / sul tuo letto la mano mia stringevi, / per non mollar la vita o forse, padre, / per proteggermi ancor dopo la morte».

(Ignazio Amico, A mio padre)

Sta rimbalzando, in rete, la battaglia per una lingua non sessista. In campo, fior di intellettuali e intellettuale (-lesse?), impegnate a declinare il vocabolario al femminile, convinti/e che – come scrive Cecilia Robustelli – “la figura femminile viene spesso svilita dall’uso di un linguaggio stereotipato che ne dà un’immagine negativa, o quanto meno subalterna rispetto all’uomo».
E’ vero. Le parole sono importanti, perché descrivono la realtà. Le donne rivendicano un maggiore riconoscimento? Lotta dura e senza paura alle regole misogine (?) della lingua italiana, che in presenza di un sostantivo maschile e uno femminile concorda al maschile.
Una collega ha già iniziato la revolución e in una circolare indirizzata alle classi ha scritto che le studentesse e gli studenti dell’Istituto sono invitate alla conferenza x nel luogo y il giorno z. Per galateo. O forse perché le allieve da noi sono più numerose degli allievi e la maggioranza vince. O magari – più probabile – perché «Sebben che siamo donne, paura non abbiamo…». Neanche del Preside (che infatti non si è permesso di correggere la circolare). Neanche delle regole della grammatica. Abbasso le regole (maschiliste, anche se il sostantivo è femminile). Viva la revolución!
Piacerebbe però vedere le novelle maître à penser e le linguiste linguacciute profondere lo stesso impegno e la stessa passione per una parola che oggi davvero è a rischio estinzione. «Papà». Non scherzo e non sto esagerando.
Ricorderete cos’è accaduto qualche tempo fa al reparto di ostetricia-ginecologia dell’Ospedale di Padova. La compagna lesbica di una madre lesbica si è rifiutata di indossare il braccialettino con scritto «padre» perché, in effetti, lei non è il padre del bimbo che andava a trovare al nido, e fino a prova contraria non è nemmeno uomo.
Cos’ha fatto l’ospedale, che poteva darle un braccialettino neutro, magari con un cuoricino, o un fiorellino, o un-quel-che-vuole-lei? Ha pensato bene (si fa per dire) di modificare tutti i braccialetti. In prima battuta la nuova scritta è stata «partner», poi – di male in peggio – pare abbiano preferito «Jolly». Sia quel che sia, la scritta «padre» è scomparsa.
Seconda notizia. Avrete certamente sentito che in un asilo di Roma è stata abolita la festa del papà. Una mamma lesbica e la sua compagna (mi rifiuto di scrivere «due mamme» perché alla verità io ci tengo e checché se ne dica, di mamma ce n’è una sola)… costoro, dicevo, non volevano che il bambino soffrisse perché lui non ha un bel niente da festeggiare: il papà non ce l’ha e non l’avrà, e così la festa è saltata per tutti. Quella mamma e la di lei compagna han deciso per la vita del figlio che il padre non serve. Lancia in resta loro e la psicologa, i padri son diventati un optional per tutti.
Due esempi (ce ne sarebbero molti altri) per dire che, senza timore di essere smentita, è questa, oggi, la parola più in pericolo: «papà». E se è vero come è vero che le parole raccontano la realtà, e la nostra visione del mondo, attenzione: non si tratta di quattro o cinque lettere dell’alfabeto che stanno diventando demodè. Ad essere sotto attacco sono i padri. Loro: in carne ossa e ruolo all’interno della famiglia, all’interno della società.
Chi sta accanto ai bambini e ai giovani si accorge che di lui han bisogno: del padre. Oggi più che mai. Non genericamente di «due persone» che si prendano cura di quel bambino, di quel giovane dentro casa. Proprio del «padre». Per le peculiarità che ha. Per il compito educativo che gli è proprio. E non c’è surrogato che tenga.
La scuola – lo confermano gli esperti – è diventata troppo materna; alcuni padri sono diventati troppo materni (e la colpa è anche la nostra, che li abbiamo femminilizzati, che li vogliamo a nostra immagine e somiglianza, che chiediamo la par condicio in casa, e l’interscambiabilità dei ruoli…). A volte sono loro che fanno un passo (due, tre…) indietro per inettitudine, per egoismo, per pigrizia. Più spesso siamo noi che non gli diamo fiducia.
E che dire della fecondazione eterologa? Il messaggio è che dell’uomo, in fondo, può bastare un po’ di sperma (meglio se anonimo). Q.b. perché l’ovulo venga fecondato. Poi… saluti e (a mai più) arrivederci. Possiamo cavarcela benone noi donne: padri madri tutto. (Poi tuo figlio all’asilo scopre che gli altri hanno un padre e lui no, e vaglielo a spiegare… Mica potrai cancellare il 19 marzo dal calendario… E cassare le parole che hanno come radice “quella radice lì”!?).

Stamattina ho RT un tweet che mi ha commosso: «Auguri a tutti i papà, ma anche ai loro figli e alle loro mogli, senza cui padri non sarebbero diventati». Vero. Le quattro lettere di «papà», le cinque della parola «padre» nascondono un mondo.
Se ne facciano una ragione i paladini dell’indistinto, le amazzoni postmoderne, le figlie dei fiori che sognano una società matriarcale. Fino a prova contraria (ma quando accadrà, spero di essere già all’Altro Mondo!) senza padri non esisteremmo. Nemmeno senza il Padre. Altro che i dibattiti su sindaca, chirurga, ingegnera… Per la sopravvivenza della società, la vera battaglia si gioca qui.

Fonte: «Papà» non è una parolaccia!.

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