PARADISE: FAITH/ 1. Sbai: un nichilismo osceno che offende la fede di cristiani e musulmani

Souad Sbai sabato 1 settembre 2012

Rifuggire da ogni semplificazione o banalizzazione. Questa la parola d’ordine di chi voglia commentare il film di Seidl a Venezia, Paradise: Faith. Oltre la volontaria e forzata oscenità che pervade la pellicola, utilizzata al fine di sviare i meno attenti dal vero obiettivo, mi pare chiaro che l’intento del film vada piuttosto al di là.

C’è un cuore pulsante di insofferenza verso alcuni elementi che batte dentro la pellicola di Seidl. E non parlo solo della dinamica e di una certa dimensione cristiana. Anzi, l’insofferenza del regista si riversa anche sulla sponda opposta. Analizziamo le figure che caratterizzano il film, perché è nel loro rapporto-scontro che ha sede il senso del film: la protagonista e il marito. Lei, cattolica ultraconservatrice e ultrapraticante che porta la sua ossessione religiosa fino alla morbosa perversione, facendo proselitismo e disseminando la casa di crocifissi e di immagini sacre. Lui, musulmano ormai avvezzo all’estremismo, ridotto sulla sedia a rotelle e allo stesso modo astioso e violento verbalmente contro la donna, che passa a staccare con rabbia ogni crocifisso che lei mette sulla parete, non potendo staccare alla donna quel pensiero e quella fede. La figura di lei è volontariamente smodata e deviata, eccedendo all’estremo e sconfinando nell’oscenità e nella blasfemia, idea incarnata dalla scena dell’autoerotismo. La figura di lui è invece estremizzata all’inverso, resa volontariamente innocua ma esprimendo al contempo la violenza di un comportamento che se solo avesse due gambe chissà dove lo porterebbe contro quella donna che costantemente ne insulta un credo convertito all’odio.

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