Per comprendere Papa Francesco

mercoledì 3 aprile 2013

Proponiamo questa lunga intervista all’abbé Claude Barthe sulla figura di Papa Francesco. Ci sembra che offra interessanti spunti di confronto, su cui varrà la pena ritornare

— L’elezione del primo papa di nome Francesco è vissuta come un grande cambiamento. Anche lei è di questa opinione?
— Fondamentalmente no. Purtroppo no. Voglio dire che il contesto di questa elezione è quello di una crisi, senza precedenti nella storia della Chiesa, della fede, della trasmissione della fede, della catechesi, una crisi che non cessa di crescere. È legata allo smantellamento della liturgia romana che la riflette e la accentua. Si propaga inoltre per mezzo di una secolarizzazione (e un nascondimento) del clero e dei religiosi, e di una perdita stupefacente tra tutti del senso del peccato, che dal punto di vista morale banalizza la secolarizzazione. Prima si parlava di credenti non praticanti. Oggi, in Francia e in un certo numero di paesi d’Occidente, la pratica diventa residuale e inoltre i praticanti che restano sono ben lungi dall’essere tutti credenti. Nel resto del mondo, particolarmente nei paesi dove il numero dei preti è importante o in crescita, l’aumento dell’eterodossia e dell’assenza di formazione teologica è più che angosciante. Questa tempesta che scuote la Chiesa nel seno dell’ultra-modernità, e un mondo aggressivamente secolarizzato, riduce considerevolmente l’evento dell’elezione pontificia del 13 marzo, anche se resta importante. Ma la realtà rimane immutata: la barca prende acqua da tutte le parti, per citare il papa precedente.

— Chi è papa Francesco?
— È nato nel 1936 in Argentina da una famiglia di emigrati italiani (ha 76 anni, mese più, mese meno, l’età che aveva all’elezione papa Giovanni XXIII). È entrato nei gesuiti, è stato il provinciale dell’ordine in Argentina dal 1973 al 1979. Giovanni Paolo II lo nominò vescovo ausiliario di Buenos Aires nel 1992, poi coadiutore (con diritto alla successione) nel 1997. Venne nominato arcivescovo della capitale argentina nel 1998, cardinale nel 2001, e in pratica il capo della Chiesa in Argentina.

Ma immagino che mi stiate chiedendo del suo profilo ecclesiastico. Formalmente è un prodotto di puro stampo ignaziano, o perlomeno dello stampo ignaziano di alto livello. Il nuovo papa è un uomo dalla personalità molto forte che ha un forte senso dell’autorità. La sua personalità è già stata paragonata a quella di Pio XI, ma per conto mio la paragonerei piuttosto a quella del cardinale Benelli, che dominò per molto tempo la curia di Paolo VI.

Gesuita molto ligio ai suoi doveri, è un asceta che si alza all’alba, fa un’ora di orazione ogni giorno. Con una grandissima capacità lavorativa, una memoria formidabile e un’intelligenza fine, ha una capacità notevole di controllare direttamente ciò che dirige (non ha praticamente mai avuto un segretario personale). Detto ciò, è un’impresa più ardua governare la Chiesa universale della Chiesa argentina, soprattutto a 76 anni, con praticamente un polmone solo dall’età di 21 anni ed essendo veramente stanco da alcuni anni. E chi può oggi rimettere in piedi una situazione ecclesiastica? Papa Francesco lascia una diocesi, quella di Buenos Aires, afflitta da una grave crisi di vocazioni e minata dalla secolarizzazione così come lo sono tante diocesi di terre che una volta furono cristiane.

È un intellettuale, un uomo colto, un ottimo divulgatore: si sforza di parlare con una grande semplicità; in Argentina si costringeva perfino ad usare espressioni gergali. I suoi attacchi ripetuti contro il consumismo, contro una religione diluita, sono un toccasana. Anche questo significa dire che sa comunicare alla perfezione, anche se il suo carattere spiccio gli può giocare degli scherzi. È molto attento alle nomine che fa, come ha dimostrato negli incarichi di responsabilità che ha esercitato, come provinciale dei gesuiti e come primate dell’Argentina, “creatore” dei vescovi di quel paese. La sua importanza morale è cresciuta ulteriormente dopo il 2005, visto che si è venuto a sapere molto presto che durante il conclave che elesse Joseph Ratzinger aveva beneficiato di tutti i voti “di opposizione” al decano del Sacro Collegio d’allora. In Argentina era considerato come il quasi-papa, come quello che lo sarebbe stato se non si fosse trovato contro il Prefetto dell’ex-Sant’Uffizio. Questo per dire che a parte l’intensità della vita spirituale, la sua personalità è molto diversa da quella del papa precedente.

— Cioè un “progressista”?
— No! Il cardinal Bergoglio non assomiglia all’altro cardinale gesuita dalla forte personalità, il cardinale Martini, che era dato per papabile fino a quando si ammalò del morbo di Parkinson. Così come bisogna capire che papa Ratzinger non era un “tradizionalista”, ma un uomo di “centro-destra” – scusatemi questi termini certamente inadeguati ma che hanno il pregio di essere di facile comprensione – molto attento ad ogni rivendicazione tradizionale che faceva sua in parte, soprattutto in materia liturgica, bisogna anche capire che il nuovo papa non è un “progressista”.

E per questo bisogna fare una parentesi sul suo profilo politico e sociale. L’Argentina è un paese che è stato segnato da un fenomeno politico molto specifico, il peronismo, che non so se sia possibile far rientrare sic et simpliciter nella categoria dei populismi, tanto era vasta la gamma delle varie sensibilità dei sostenitori di Juan Perón, che spaziavano dal fascismo ad una sinistra molto spinta. Jorge Mario Bergoglio era un peronista impegnato di centro-destra, un catto-peronista, se si può dire così. È stato membro dalla fine degli anni ’60 (cioè più o meno da quando fu ordinato) di un’organizzazione peronista chiamata OUTG (Organizzazione Unica di Trasferimento Generazionale), che non prese parte alla lotta armata, ma che si consacrava alla formazione di giovani quadri di questo movimento estremamente sociale, benché radicalmente ostile al marxismo. Alla fine del 1974, quando era provinciale dei gesuiti da un anno, confidò il controllo dell’Università gesuita del Salvatore a vecchi membri di questa organizzazione che era stata sciolta. Si critica spesso Jorge Mario Bergoglio per il suo appoggio alla giunta militare che depose Isabel Perón nel 1976. Bisogna capire che era tra quelli che volevano preservare il lascito sociale del peronismo. La revisione che poi fece del suo percorso in un famoso libro intervista, “El Jesuita”, pubblicato nel 2010, è evidentemente un’opera di circostanza, ma non sbaglia quando vi insiste nell’affermare che la sua linea è sempre stata la cura dei poveri, l’organizzazione a loro favore di strutture sociali e l’evangelizzazione in questo senso.

— Sembra essere molto mal visto dagli attuali governanti argentini, i quali potrebbero essere all’origine della ripresa delle accuse di collaborazionismo con il regime di Videla.

— Infatti. L’atteggiamento molto critico verso il governo “borghese” dei Kirchner è stato rivolto contemporaneamente contro la debolezza della politica sociale e contro la messa in causa delle fondamenta cattoliche dell’Argentina (vedi per esempio il suo libro Ponerse la patria al hombro [prendere la patria sulle spalle] del 2004), con delle prese di posizione ben conosciute contro l’aborto e il matrimonio omosessuale. La sua difesa della morale coniugale e della vita è stata molto decisa. Si potrebbe forse sognare che venga reso il debito onore all’Humanae Vitae, un’enciclica oggi dimenticata, e una catechesi che denunci la contraccezione? Volendo, si potrebbe dire che le sue dichiarazioni sulla vita in Argentina sono state più nazional-cattoliche delle dichiarazioni dei vescovi francesi, ma anche più timide rispetto alla presenza alle manifestazioni in merito. Al limite, si potrebbe sostenere che il cardinale di Buenos Aires in Argentina era diventato una fonte di ispirazione politica alternativa al centro-sinistra.

In tutto questo percorso, si potrebbe dire che sia passato dal peronismo di centro-destra al centro-sinistra della persona ecclesiastica, dove lo situa l’elezione “mancata” del 2005 e le sue affermazioni ne “El Jesuita”. Ciò spiegherebbe il suo atteggiamento più che riservato verso la teologia della liberazione e verso la tendenza dei gesuiti che, sotto il Superiore Generale P. Arrupe (1965 – 1985), hanno sostenuto, chi più chi meno, questa teologia. Se questa teologia accettava il marxismo, tranne l’ateismo, Jorge Mario Bergoglio non accettava che “l’opzione preferenziale per i poveri” della teologia della liberazione. Jorge Mario Bergoglio partecipò alla lotta di Giovanni Paolo II e del cardinale Ratzinger contro questa teologia in quanto marxisteggiante (con due istruzioni della Congregazione per la Dottrina della Fede su questo tema, del 1984 e del 1986). Fu nominato vescovo quando cambiò la tendenza dell’episcopato dell’America Latina, grazie ad una politica di nomine episcopali che fu sigillata dalla conferenza generale dell’episcopato latinoamericano di Santo Domingo nel 1992. Così, Jorge Mario Bergoglio si avvicinò a prelati più conservatori di lui che agirono contro questa teologia in Argentina, come Angelo Sodano, nunzio in Cile, e Leonardo Sandri, nunzio in Venezuela e poi in Messico. Questi sono successivamente diventati persone chiavi della curia wojtyliana e recentemente attori decisivi per elevarlo al soglio di Pietro.

Per rispondere in altro modo alla sua domanda precedente, si potrebbe dire che l’elezione di Jorge Mario Bergoglio a Sommo Pontefice assomiglia all’elezione di André Vingt-Trois, ma con delle affinità più “liberali” del cardinale di Parigi, come dimostrano la vicinanza del nuovo papa al cardinale Hummes, già arcivescovo di Sao Paolo e un tempo Prefetto della Congregazione per il Clero, oppure al cardinale Kasper.

Allora si può dire che è “conciliare”?
— Bisognerebbe essere più precisi, perché la gamma dei conciliari è ancor più ampia di quanto non fosse quella dei peronisti.

Il nuovo papa è conciliare, forse ultra-conciliare, in materia di ecumenismo e di rapporti con le religioni non cristiane, perlomeno col giudaismo. Si interessa molto alla collegialità a tutti i livelli. Per il resto, le novità non gli interessano affatto. Per esempio non è per niente tentato dall’esegesi biblica neo-bultmanniana o dalle ecclesiologie eterodosse di certi suoi confratelli gesuiti. Del resto ne è protetto dal suo modo di essere teologico molto semplice. La sua teologia è spirituale e pratica. Forse è qui che apparirà una difficoltà: è banale dire che l’ultimo concilio per certi aspetti ha causato un enorme sisma teologico, qualcosa di indefinibile che bisogna difendere attivamente, o per lo meno assumere, oppure “interpretare” o superare. Dato che per lui le ultime due ipotesi sembrano escluse, le prime due implicano, per il livello di responsabilità al quale accede, di poter “mantenere la rotta”.

Evidentemente il nuovo papa risponderà a un desiderio di riattivare la collegialità episcopale richiesta da una parte notevole dell’episcopato. Ma come faceva notare Jean Pierre Denis, de “la Vie”, questo è uno dei paradossi di questa elezione: i cardinali hanno voluto una riforma della curia – il ché significa che un governo forte riprenda in mano la situazione – e al tempo stesso più decentramento. È un po’ contraddittorio. A mio parere, l’anarchia intrinseca dello stato post conciliare si incaricherà di controbilanciare la forza eccessiva che potrebbe avere l’autorità romana, anche se “conciliare”.

— E la liturgia? E il Motu Proprio? E la Fraternità San Pio X?

— Staremo a vedere. È più che evidente che il nuovo papa ha una sensibilità liturgica del tutto diversa da quella del papa precedente. Prima dell’apertura del conclave, negli ultimi giorni, ho seguito attentamente un giornale italiano chiamato Il Fatto Quotidiano, che in extremis ha sparato a vista sul papabile delfino di Benedetto XVI, Angelo Scola, arcivescovo di Milano. Inoltre, questo giornale ha pubblicato un articolo secondo il quale “i cardinali non vogliono soprattutto un papa lefebvriano”. Bisogna capire questo aggettivo all’italiana, cioè favorevole ad un “ritorno” liturgico. Con altre parole, la “riforma della riforma” imposta dall’alto, dal papa, sarà rivista. Resta la “riforma della riforma” scaturita dalla base, rafforzata dalle celebrazioni di messe tradizionali. Queste si possono ostacolare, ma è impossibile soffocarle, come si poteva fare durante “gli anni di piombo”.

Inoltre, il nuovo papa è un politico intelligente, pragmatico nelle sue alleanze, complesso, segreto, che ama sorprendere. La Messa d’intronizzazione lo dimostra. Visto che per ora non ha nessuna opposizione seria a destra (ecco una delle lezioni sorprendenti del conclave: il ratzingherismo puro vi è evaporato), può permettersi dei gesti in direzione del mondo tradizionale sensu latu: quello dei preti identitari, delle comunità conservatrici, un mondo che è influente in Italia, in Francia, negli Stati Uniti e altrove. Potrà comprendere il divario che c’è tra gli alti responsabili ecclesiastici e le attese di quello che è stato chiamato il “nuovo cattolicesimo”?

È risaputo che l’arcivescovo di Buenos Aires ha applicato il Summorum Pontificum in Argentina così com’è stato “applicato” dalla maggioranza dei vescovi francesi … Basterebbe del resto lasciare le cose come sono per far sprofondare il carattere in teoria vincolante del Motu Proprio in un sonno profondo. Ma ci sono i preti giovani, le vocazioni di spirito tradizionale, le comunità Ecclesia Dei, l’attesa di una certa parte di fedeli nelle parrocchie, insomma, un insieme di fattori che papa Francesco conosce poco, ma con i quali probabilmente dovrà mettersi d’accordo, indubbiamente per interposta persona.

La FSSPX? La sua passività nei negoziati per installarsi “dentro [la Chiesa]” dallo scorso giugno può forse servirla, ma rende un pesante disservizio alla Chiesa oggi. Comunque sia, il tempo delle interminabili procrastinazioni è certamente terminato. Mi direte che se dovessero venire nuovamente dichiarate le scomuniche non cambierebbe molto. Che la FSSPX sia “fuori” mentre i preti austriaci in rivolta sono “dentro” toglie tutto l’effetto delle sanzioni. E specialmente considerando che se la “riforma della riforma” può venire spinta dalla base, anche la reintegrazione della FSSPX, in una società ecclesiale sempre più debole, si può fare alla base.

Le mie prospettive sono prudenti, come vede.

— Può forse illuminarci su come è avvenuta questa elezione che ha preso tutti allo sprovvisto?
— Nessun analista o commentatore l’aveva prevista. Allora, cos’è successo? Se bisogna credere ai giornali meglio informati, e se si raccolgono le confidenze indirette dei cardinali, parrebbe che dal primo scrutinio i sostenitori del Cardinale Scola, il candidato che aveva il miglior CV tra i papabili della continuità ratzingheriana, hanno constatato che aveva molto meno dei quaranta voti che si attendevano all’inizio. Si sono forse spostati verso il Cardinale Erdő di Budapest? Lo sapremo presto. Invece, si è saputo che i promotori curiali di una candidatura “di cambiamento” tra i quali i cardinali Sodano, Sandri, Re, la “vecchia Curia” come si dice, alleati di Bertone, avevano cambiato la candidatura del Cardinal Scherer di Sao Paolo con quella ben più efficace del Cardinal Bergoglio, e che a loro si sono uniti anche i cardinali americani. Il segreto era stato accuratamente mantenuto. Il colpo di scena ha qualche similitudine con quello dell’ottobre 1962, ai primi giorni del concilio Vaticano II. Così come la Curia pacelliana si sgonfiò come un soufflé all’epoca, così oggi otto anni di “restaurazione” ratzingheriana. Perlomeno nel Sacro Collegio. Notate bene che un certo numero di promotori dell’elezione del nuovo papa sanno benissimo che non sarà un loro strumento. Fanno pensare al principe Salina del Gattopardo, che salva quanto può facendo la parte del fuoco: “Occorre che tutto cambi affinché nulla cambi”.

Tutto cambia? Vero o falso che sia, sul campo è stato sentito, vissuto e spiegato così, specialmente dai media, che dei fatti della Chiesa rendono noto soltanto ciò che conviene a loro. Per continuare la metafora con il Vaticano II, si potrebbe dire che così come c’è stato il Concilio e lo “spirito del Concilio ”, che ha amplificato il movimento novatore, così si rischia di vedere papa Francesco e “lo spirito di papa Francesco” che cercherà di amplificare l’evoluzione.

— Allora, è ottimista o pessimista?
— Non spetta a me essere né l’uno né l’altro, come se guardassi tutto da fuori. Certamente non nascondo che mi dispiace che l’epoca precedente sembra chiudersi come una parentesi. Ma non credo affatto che si ritorni agli anni più “conciliari” dal punto di vista della liturgia, dello spirito del clero ecc. E poi, ancora una volta, la “purificazione”, quella dei conti dello IOR, la banca vaticana, o quella delle storie rocambolesche di fughe di documenti, non sono il vero problema. Il vero problema, colossale, è quello della situazione del cattolicesimo a cinquant’anni dal Vaticano II: è da catastrofe. E allora, anche se tutti i vescovi del mondo abbandonassero macchina e autista per prendere la metro o la bicicletta, non cambierebbe proprio niente di questo fatto.

In fondo la vittima di ciò che è successo potrebbe benissimo essere “l’ermeneutica della continuità”. Si può osservare che il tentativo di Joseph Ratzinger dopo il libro “Intervista sulla Fede” del 1985, permetteva sì di fare delle profonde obiezioni molto promettenti, ma aveva anche l’inconveniente di provocare degli stalli su una linea conservatrice. Bene, ormai ci troviamo davanti al Concilio così come fu in sé stesso. Ci troviamo davanti alla riforma liturgica, non importa se con o senza “abusi”, senza veli, davanti alla riforma liturgica messa a nudo. E la vera discussione può continuare sui punti che pongono difficoltà, pacatamente, certo, ma direttamente. Vedete, ancora una volta mi si rinfaccerà di essere troppo ottimista …
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Propos recueillis par Olivier Figueras – Article extrait du n° 7819 du Samedi 23 mars 2013
http://www.revue-item.com/7497/une-analyse-sur-lelection-du-pape-francois/

Fonte: Per comprendere Papa Francesco.

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