Petrolio iracheno, l’oro nero del Califfato | La Nuova Bussola Quotidiana

di Gianandrea Gaiani  22-09-2014

Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha ribadito il 19 settembre «l’urgente necessità di fermare qualsiasi commercio diretto o indiretto di petrolio dall’Iraq che coinvolge l’Isis, con l’obiettivo di porre fine al finanziamento del terrorismo». Eppure i traffici di petrolio gestiti dagli uomini di Abu Bakr al-Baghdadi non sono certo cominciati negli ultimi tre mesi con l’invasione di alcuni pozzi nei pressi di Mosul e Kirkuk e le prime informazioni dettagliate circa il petrolio siriano venduto clandestinamente (e a prezzi ribassati) dallo Stato Islamico risalgono ad almeno un anno or sono. Allora però si trattava del greggio dei pozzi sottratti al controllo del governo di Damasco e la comunità internazionale non si preoccupava certo dei danni economici che poteva subire il regime di Bashar al Assad. Non ci si rese conto però che con quel denaro (oltre che con gli aiuti della Cia e delle monarchie del Golfo diretti ufficialmente ai “ribelli moderati”) lo Stato islamico di Iraq e Sham (oggi Stato Islamico) ha acquisito la forza politica, militare ed economica che gli ha permesso di arruolare sotto le sue bandiere le tribù sunnite irachene e mantenere un esercito stimato oggi in 50 mila combattenti (pari alla metà dell’intero esercito italiano) tra cui migliaia di volontari stranieri.

Il contrabbando di petrolio, diretto a quanto pare da al-Hamoud Ali, una sorta di “ministro del petrolio” del Califfato noto anche con il nome di Abu Luqman, costituisce oggi la principale forma di finanziamento dell’IS. Secondo Luay al-Khateeb, esperto del Brookings Doha Center, i jihadisti producono 100 mila barili di greggio al giorno, più o meno come il Sudan, che gli garantiscono incassi per 2 milioni di dollari al giorno.

Secondo fonti dell’intelligence israeliano (che ha ottime entrature con i curdi e mantiene, con droni e satelliti, una costante copertura del teatro bellico iracheno e siriano) il traffico di petrolio del Califfato consente invece guadagni più consistenti, compresi tra i 3 e i 6 milioni di dollari al giorno. Si tratta di greggio estratto da circa 60 pozzi in territorio siriano e iracheno che viene venduto a prezzo conveniente a commercianti privati iracheni, siriani e turchi che poi lo piazzano nei rispettivi mercati nazionali.

Una fonte qualificata citata dal quotidiano israeliano Haaretz riferisce di “straordinarie risorse economiche” per il Califfato quali nessuna organizzazione terroristica ha mai potuto avere prima d’ora. Un allarme che trova conferma presso autorità locali irachene. Solo con la produzione della regione di Himrin, nella provincia irachena di Diyala, non lontano dal confine con l’Iran, l’Isis guadagnerebbe 600.000 dollari al giorno, secondo quanto affermato Oday al-Khadran, sindaco di Khalis.

«I jihadisti riempiono circa cento autobotti al giorno di greggio, che viene consegnato a commercianti senza scrupoli a Mosul o in Siria. Qui viene venduto a mediatori stranieri a circa 4.000 dollari per ogni autobotte, circa l’80% in meno rispetto ai prezzi di mercato in Europa» ha detto il sindaco. Proprio la vendita del petrolio a prezzi fortemente ribassati ha consentito allo Stato islamico di assicurarsi l’appoggio di clan tribali armati delle province settentrionali di Raqqa e di Dayr az Zor, l’area siriana più ricca di risorse energetiche dove l’Isis controlla quattro dei cinque principali giacimenti gestiti fino al 2011 dalla francese Total e dall’anglo-olandese Shell e dove i tecnici siriani continuano il lavoro di estrazione stipendiati oggi dal Califfo.

La fonte di Haaretz valuta che grazie ai proventi del petrolio lo Stato islamico stia incrementando il numero di combattenti visto l’alto numero di milizie e gruppi tribali che gli giurano fedeltà. L’ufficiale israeliano ha ammesso che Gerusalemme fornisce informazioni di intelligence agli Stati Uniti, confermando quanto emerso nei giorni scorsi sui media internazionali in merito alla fornitura a Washington di immagini satellitari e altro materiale.

Nei mesi scorsi i miliziani del Califfo hanno cercato di impadronirsi anche del giacimento di gas di Shaer, sulla strada tra Palmyra e la città di Deyr az Zor, ma sono stati respinti dalle truppe di Assad che nell’oasi di Palmyra mantengono un robusto contingente militare che cerca di arginare l’avanzata dei jihadisti.

I pozzi controllati dall’Isis in Iraq sono certo minori rispetto a quelli principali situati nell’area curda e soprattutto nel sud del Paese e il ministero del Petrolio iracheno ha reso noto che le esportazioni (7 miliardi di dollari in agosto) non hanno subito gravi contraccolpi dall’attacco dello Stato Islamico anche perché l’intero export è stato dirottato sui porti meridionali di Bassora e Umm Qasr dopo che l’oleodotto da Kirkuk verso Ceyhan, in Turchia, è stato chiuso fin da marzo a causa di attentati.

Il problema però non sono i danni economici che il Califfato infligge a Baghdad, ma i vantaggi che acquisisce commerciando il petrolio dei territori occupati. Le offensive condotte in queste settimane dalle forze irachene e curde, con l’appoggio dei raid aerei americani, puntano a respingere i jihadisti dalle vicinanze dei pozzi di Kirkuk e dalle raffinerie di Baiji, 40 chilometri a nord di Tikrit.

Il Washington Post sostiene che per diverso tempo la Turchia ha chiuso un occhio su questo traffico illecito che finanziava il gruppo armato più potente tra quelli che combattevano il regime di Bashar al Assad la cui caduta era una priorità per il governo di Ankara. Oggi la Turchia è costretta però a fare i conti con la minaccia portata dai miliziani che ha appoggiato fino a ieri e fonti militari di Ankara hanno riferito che nelle ultime due settimane sono stati sequestrati 13.400 litri di combustibile al confine con la Siria. Il greggio del Califfo non viene infatti solo venduto ma in alcuni casi è barattato con carburante raffinato necessario ad alimentare i mezzi dello Stato Islamico che includono anche carri armati e cingolati catturati in gran quantità all’esercito iracheno e in misura minore a quello siriano.

Il Califfato dispone di alcuni impianti di raffinazione costruiti in modo improvvisato nella zona di Raqqa. Il più importante si trova vicino alla città di Akrish e produce un carburante di bassa qualità che viene venduto al mercato nero a prezzi ribassati di un terzo rispetto a quelli ufficiali. Quanto ai metodi utilizzati dal Califfato per l’export clandestino di petrolio si va dal normale traffico di autobotti attraverso la frontiera turca o la linea del fronte irachena a sistemi più parcellizzati e difficili da individuare e contrastare. Secondo un’inchiesta del Wall Street Journal vengono utilizzati camion e trattori, persino asini e cavalli per attraversare la frontiera turca con carichi di greggio, oppure zattere che seguono la corrente dell’Oronte, che dalla Siria attraversa la provincia turca di Hatay.

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