Picchiata per il velo, l’Italia come Kabul | l’Occidentale

Aveva caldo, solo un gran caldo. Ed era anche in gravidanza, e comminava con suo marito per Porto Empedocle, in provincia di Agrigento, non proprio Cortina D’Ampezzo.

Con un caldo così portare un hijab che ti copre la testa, la fronte, la bocca, il collo, sopra quel vestito «modesto» che ti avvolge la gambe, le braccia, tutto il corpo, non è possibile. Ma è ancora più impossibile violare la legge dell’Islam e quella del marito e del padre, e quando la giovane moglie, vent’anni, ha detto che si voleva togliere quella cosa dal capo, che non ne poteva più, il marito si è messo a urlare e a inveire. Ma la giovane che è un’italiana figlia di un tunisino e vive a Torino col giovanissimo coniuge egiziano, è un’italiana, e per quanto evidentemente disposta a vivere in maniera religiosa, non ce l’ha fatta a subire quel diktat. Una donna incinta ha già abbastanza fastidi fisici per sopportare anche un caldo violento, e la nostra ragazza si è tolta comunque il velo, ottenendone una gragnuola di pugni e calci. La fine è un film conosciuto: è intitolato violenza contro le donne, ma pare che non ci stanchiamo di rivederlo. La gente intorno cercava di sottrarla dalle mani dell’uomo, ha chiamato l’ambulanza e la polizia, lei è all’ospedale, lui per ora è dentro.Ma di chi è la colpa? La colpa è nostra, perché non riusciamo a rendere comune buon senso il nostro, italiano e occidentale, divieto assoluto di uso della violenza nelle famiglie, e in particolare in quelle islamiche.

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