Quale ruolo della Fede in Dio nello spazio pubblico? | l’Occidentale

7 Maggio 2013

Parleremo non del ruolo di Dio ma del ruolo della fede in Dio, nello spazio pubblico: è una precisazione necessaria perché quando si parla di Dio la questione è inevitabilmente filosofica e teologica (di questa ho parlato nel mio libro intervista  con Andrea Galli). Quando invece si parla della fede in Dio la questione può essere anche storica, culturale, sociologica, politica. La domanda su Dio però si ripropone, nel senso che occorre precisare a quale Dio si rivolga la fede: la differenza tra gli dei del politeismo, il Dio del monoteismo, o il Dio del panteismo è infatti assai grande ed ha conseguenze decisive anche per il ruolo della fede nello spazio pubblico. Dirò dunque che mi riferisco al Dio di Gesù Cristo, cioè al Dio della nostra tradizione italiana, europea e non solo europea. Il riferimento a questo Dio ha plasmato la nostra cultura e la nostra civiltà. A mio parere, e secondo la dottrina della Chiesa cattolica, questo Dio può essere conosciuto, per alcuni aspetti, anche dalla nostra ragione e in questa misura è accessibile ai non credenti in Cristo. La piena conoscenza di lui si ha però solo accogliendo nella fede il suo manifestarsi a noi nella storia di Israele e soprattutto in Gesù di Nazaret.

 

Nella storia delle religioni e delle culture il ruolo di Dio nello spazio pubblico è qualcosa di ovvio e di originario, anche se viene concepito in modi molto differenziati. Le religioni, tradizionalmente, hanno svolto, e tuttora svolgono assai spesso, un ruolo centrale nella genesi e articolazione delle culture, delle società e della vita pubblica. Proprio con il cristianesimo è accaduto però qualcosa di nuovo. Per comprendere questa novità è importante inquadrarla un poco storicamente. Nel VI secolo a.C., in un periodo nel quale sono avvenuti grandi rivolgimenti culturali in aeree geografiche anche molto distanti e disparate, in Grecia le divinità mitiche dell’Olimpo hanno cominciato ad essere soppiantate dal Dio dei filosofi, o meglio dall’Essere assoluto, unico ed eterno, con il quale però, per la sua trascendenza rispetto a noi e al mondo, non si potrebbe interloquire e non avrebbe senso rivolgersi nella preghiera. Così si apre una frattura tra la conoscenza razionale di Dio e il senso religioso. Nello stesso periodo in Israele, proprio al tempo della catastrofe politica dell’esilio in Babilonia e della fine dell’indipendenza, giunge a compimento (ad esempio ad opera di un profeta che ha scritto la seconda parte del libro di Isaia) la convinzione che il Dio di Israele, Jahweh, non è solo l’unico Dio che Israele deve adorare, ma anche l’unico Dio esistente, creatore e salvatore universale, l’unico vero Dio di tutti i popoli. Si ha quindi uno sviluppo analogo a quello avvenuto in Grecia, ma con una differenza essenziale: questo unico Dio è assoluto ed eterno ma è anche a noi sommamente vicino, è il Dio che si interessa di noi e ha preso l’iniziativa di rivelarsi al popolo di Israele. Di più, è il Dio sommamente libero e personale, che ha creato il mondo liberamente e per amore.

 

Questo è anche il Dio di Gesù Cristo: in Cristo anzi la vicinanza e l’amore di Dio giungono al vertice umanamente inconcepibile della morte del Figlio per noi. Non solo, ma anche da parte nostra il rapporto con Dio non è più legato ad aspetti etnici e giuridici, come l’appartenenza a un popolo e l’osservanza della legge mosaica, bensì è aperto a ogni persona, sulla base della libera scelta personale della fede e della conversione. Così la libertà diventa fattore centrale nel rapporto tra Dio e noi, per così dire da entrambe le parti, dalla parte di Dio e dalla parte dell’uomo. Il cristianesimo può quindi ben dirsi la religione della libertà, oltre che la religione del Logos, della ragione, e – soprattutto – dell’amore. Possiamo aggiungere che il concetto stesso di persona, fondamentale nella nostra civiltà, ha origini teologiche: viene sviluppato infatti nel tentativo di comprendere l’unità di Dio Padre e del Figlio, e dello Spirito Santo, nella relazione e donazione reciproca. Perciò, fin dall’origine, persona è un concetto relazionale, dice rapporto all’altro e non chiusura in se stessi.

 

In questo quadro assumono tutto il loro rilievo le celebri parole di Gesù “Date a Cesare quello che è di Cesare e date a Dio quello che è di Dio” (Matteo 22,21 e paralleli). La rilevanza pubblica della fede in Dio non viene affatto negata ma passa attraverso la libertà delle persone. Che questa rilevanza pubblica sussista nel cristianesimo fin dalle origini appare nel modo più chiaro dal carattere pubblico del processo a Gesù e dal significato che i primi discepoli attribuivano alla sua risurrezione, come adempimento della promessa di Dio a Israele, che era promessa di liberazione e salvezza del popolo, e in concreto come venuta del regno di Dio annunciato da Gesù, che significava la signoria salvifica di Dio su ogni aspetto della nostra vita e della realtà. Di fatto per i primi tre secoli della sua storia il cristianesimo ha effettivamente mantenuto e testimoniato, soprattutto attraverso il martirio  affrontato per non rendere culto divino all’Imperatore romano, l’affermazione sia della libertà della fede sia del suo carattere pubblico.

 

La svolta, come sappiamo, è avvenuta nel secolo IV, non tanto con Costantino, che si è limitato a riconoscere la libertà e liceità del culto cristiano, quanto con Teodosio, che nel suo Editto del 380 impose a tutti i sudditi dell’Impero il credo cristiano, nella forma del Credo del Concilio di Nicea, anche (anzi soprattutto) allo scopo di reprimere le eresie all’interno del cristianesimo e preservare l’unità dell’Impero. Così il cristianesimo è divenuto, contro la sua origine e la sua natura più profonda, religione di stato, sebbene, almeno in Occidente, mai in forma pacifica e piena: è stata mantenuta infatti la distinzione dei due poteri, ecclesiastico e civile (allora in concreto del Papa e dell’Imperatore), teorizzata un secolo dopo l’Editto di Teodosio dal Papa Gelasio I. Inoltre la teologia cattolica non ha mai ammesso che qualcuno venga obbligato con la forza a credere, ma solo – in modo in verità assai poco coerente – che venga usata la forza per impedire a chi aveva già creduto di abbandonare la fede (in concreto, per procedere contro gli eretici). Possiamo dire che alla base di questa posizione sta “l’oggettivismo” medioevale, cioè il primato unilaterale dell’istanza della verità su quella della libertà. Solo con la fine dell’unità religiosa dell’Occidente a seguito della riforma protestante questa situazione entra in crisi. Senza ripercorrere le varie tappe di una storia nota, possiamo dire che il primato unilaterale della verità ha condotto alle guerre di religione dei secoli XVI e XVII e che si è usciti da questa situazione insostenibile attraverso la secolarizzazione della politica, cioè la fine del ruolo pubblico vincolante della fede religiosa.

 

Questo però non equivale ancora alla fine di ogni ruolo pubblico delle religioni, in particolare di un ruolo che passi attraverso le libere scelte dei cittadini. Uno sviluppo di questo genere si è verificato più tardi, soprattutto in Francia, con l’illuminismo francese e la rivoluzione francese, ed è tuttora tipico dei paesi latini di matrice cattolica: qui la rivendicazione della ragione e della libertà assumono un volto decisamente ostile alla Chiesa e talvolta chiuso ad ogni trascendenza, mentre la Chiesa a sua volta fatica e tarda a lungo a distinguere tra le istanze anticristiane, a cui evidentemente non poteva non opporsi, e la rivendicazione della libertà sociale e politica, che invece avrebbe potuto e dovuto essere accolta positivamente, sulla base del messaggio cristiano stesso. La “laicità” alla francese implica proprio la chiusura ad ogni ruolo pubblico delle religioni.

 

Che sviluppi di questo genere non fossero un portato necessario della modernità appare soprattutto dalla vicenda storica degli Stati Uniti d’America. La loro stessa nascita infatti è dovuta, in larga misura, a quei gruppi di cristiani protestanti che erano fuggiti dal sistema delle Chiese di stato, vigente anche nell’Europa protestante, e che formavano libere comunità di credenti. Il fondamento della società americana è costituito pertanto dalle Chiese libere, per le quali è essenziale non essere Chiese dello Stato ma fondarsi sulla libera unione dei credenti. In questo senso si può dire che alla base della società americana c’è una separazione tra Chiesa e Stato determinata, anzi reclamata dalla religione e rivolta anzitutto a proteggere la religione stessa e il suo spazio vitale, che lo Stato deve lasciare libero. Per conseguenza, tutto il complesso dei rapporti tra sfera statale e non statale in America si è sviluppato diversamente che in Europa, attribuendo anche alla sfera non statale un concreto carattere pubblico, favorito dal sistema giuridico e fiscale.

 

In questa America, con la sua specifica identità, i cattolici si sono integrati bene, riconoscendo ben presto il carattere positivo della separazione tra Stato e Chiesa legata a motivazioni religiose e l’importanza della libertà religiosa così garantita. Fino al Concilio Vaticano II però rimaneva una difficoltà, o una riserva di principio, che non riguardava i cattolici americani come tali, ma la Chiesa cattolica nel suo complesso. Questa difficoltà si riferiva al riconoscimento della libertà religiosa, non semplicemente come accettazione di un dato di fatto (questa accettazione c’era già prima del Concilio), ma come affermazione di un diritto. Il Vaticano II ha superato questa difficoltà con la Dichiarazione sulla libertà religiosa, documento decisivo per il rapporto tra Chiesa e modernità come ha sottolineato Benedetto XVI in uno dei suoi ultimi discorsi, quello al clero romano del 14 febbraio scorso. Non per caso la Dichiarazione sulla libertà religiosa è stata redatta con il forte contributo dei vescovi e dei teologi nordamericani. La libertà religiosa vi è affermata chiaramente come diritto universale, fondato sulla dignità che appartiene per natura alla persona umana; non quindi, come spesso si faceva e si continua a fare, su un approccio relativistico che escluda il valore di verità di ogni religione e in particolare del cristianesimo. Con il Concilio è stata ricuperata dunque, e concretizzata nell’attuale situazione storica, la concezione cristiana originaria della libertà del nostro rapporto con Dio.

 

Più in generale, il Vaticano II ha rappresentato il superamento, almeno in linea di principio, di quel ritardo storico del cattolicesimo nell’epoca moderna a cui ho accennato. Il Concilio ha fatto propria infatti la centralità del soggetto umano, che è la rivendicazione di fondo dell’età moderna, mostrandone la radice cristiana e l’infondatezza della contrapposizione tra centralità dell’uomo e centralità di Dio. Ha inoltre affermato la legittima autonomia delle realtà terrene (che a sua volta non significa negazione del rapporto con il Creatore): il filosofo Giovanni Fornero, decisamente laico, scrive, alla voce “Laicismo” nel Dizionario di filosofia dell’Abbagnano, che per laicismo si intende “il principio dell’autonomia delle attività umane, cioè l’esigenza che esse si svolgano secondo regole proprie, che non siano imposte dall’esterno, per fini o interessi diversi da quelli a cui tali attività si ispirano”. Ma queste sono, quasi alla lettera, le parole con cui il Vaticano II (Gaudium et spes, 36) definisce la legittima autonomia delle realtà terrene. Quindi anche sulla laicità, come sulla libertà religiosa e sulla centralità del soggetto umano, si poteva sperare che dopo il Concilio il contenzioso tra “cattolici” e “laici” (per usare una terminologia che non mi convince) fosse ormai alle nostre spalle. In particolare per l’Italia anche l’ostacolo del Concordato sembrava sostanzialmente rimosso, dopo che l’Accordo di revisione del 1984 aveva espressamente riconosciuto che “Si considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato nei Patti lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano”.

 

Le vicende degli ultimi decenni sembrano però smentire crudamente una tale speranza: ci troviamo infatti in una fase nuova, e acuta, della contesa intorno alla laicità, o forse più propriamente al ruolo della fede nello spazio pubblico. Ma in realtà l’oggetto del contendere si è profondamente modificato. Non si tratta più, almeno in linea principale, dei rapporti tra Chiesa e Stato come istituzioni: a questo riguardo infatti la loro distinzione e l’autonomia reciproca sono sostanzialmente accettate e condivise sia dai cattolici sia dai laici, e con esse l’apertura pluralista degli ordinamenti dello Stato democratico e liberale alle posizioni più diverse, che di per sé hanno tutte, davanti allo Stato, uguali diritti e uguale dignità. Le polemiche che vengono sollevate su queste tematiche sembrano dunque piuttosto pretestuose e sono probabilmente il riflesso dell’altro e ben più consistente contenzioso di cui ora dobbiamo occuparci.

 

Oggetto di quest’ultimo sono principalmente le grandi problematiche etiche ed antropologiche che sono emerse negli ultimi decenni, a seguito sia dei profondi cambiamenti intervenuti nei costumi e nei comportamenti sia delle nuove applicazioni al soggetto umano delle biotecnologie, che hanno aperto orizzonti fino ad un recente passato imprevedibili. Queste problematiche hanno infatti chiaramente una dimensione non soltanto personale e privata ma anche pubblica e non possono trovare risposta se non sulla base della concezione dell’uomo a cui si fa riferimento: in particolare della domanda di fondo se l’uomo sia soltanto un essere della natura, frutto dell’evoluzione cosmica e biologica, o invece abbia anche una dimensione trascendente, irriducibile all’universo fisico. Sarebbe strano, dunque, che le grandi religioni non intervenissero al riguardo e non facessero udire la loro voce sulla scena pubblica. Come è naturale, di questo si fanno carico anzitutto, nelle diverse aree geografiche e culturali, le religioni in esse prevalenti: in Occidente quindi il cristianesimo e in particolare, specialmente in Italia, la Chiesa cattolica. In concreto la loro voce risuona con una forza che pochi avrebbero previsto quando una secolarizzazione sempre più radicale era ritenuta il destino inevitabile del mondo contemporaneo, o almeno dell’Occidente: quando cioè sembrava fuori dall’orizzonte quel risveglio, su scala mondiale, delle religioni e del loro ruolo pubblico che è una delle grandi novità degli ultimi decenni. Vorrei ricordare, a questo proposito, la sorpresa e lo sconcerto che provocarono, anche in ambito cattolico, le affermazioni fatte da Giovanni Paolo II al Convegno di Loreto, nell’ormai lontano aprile 1985, quando invitò a riscoprire “il ruolo anche pubblico che il cristianesimo può svolgere per la promozione dell’uomo e per il bene dell’Italia, nel pieno rispetto anzi nella convinta promozione della libertà religiosa e civile di tutti e di ciascuno, e senza confondere in alcun modo la Chiesa con la comunità politica”.

 

La vera alternativa alle grandi religioni a proposito delle questioni antropologiche ed etiche ha, per così  dire, due facce, tra loro certamente collegate ma alla fine reciprocamente incompatibili. Da una parte essa è costituita – come si è detto – dal “naturalismo”, cioè dalla convinzione che l’uomo sia integralmente riconducibile alla natura, all’universo fisico: viene meno così quel primato del soggetto umano, da considerarsi sempre come fine e mai semplicemente come mezzo, che aveva costituito l’istanza fondamentale della modernità. Questa concezione naturalistica è presentata per lo più come il risultato delle scienze empiriche, dimenticando l’autentica natura della conoscenza scientifica, che per i suoi stessi metodi è limitata a ciò che è empiricamente verificabile e non può pretendere, senza contraddirsi, di costituire una visione globale della realtà: di una simile pretesa, infatti, nessuna verifica sperimentale è possibile o anche solo ipotizzabile.

 

L’altra faccia dell’alternativa alle grandi religioni è la rivendicazione della libertà individuale, in rapporto alla quale andrebbe evitata ogni discriminazione. Questa libertà, per la quale in ultima analisi tutto è relativo al soggetto, viene eretta a supremo criterio etico e giuridico: ogni altra posizione può essere quindi lecita soltanto finché non contrasta ma rimane subordinata rispetto a questo criterio relativistico. In tal modo vengono sistematicamente censurate, quanto meno nella loro valenza pubblica, le norme morali del cristianesimo. Si è sviluppata così in Occidente quella che Benedetto XVI ha ripetutamente denominato “la dittatura del relativismo”, una forma di cultura che taglia deliberatamente le proprie radici storiche e costituisce una contraddizione radicale non solo del cristianesimo ma più ampiamente delle tradizioni religiose e morali dell’umanità.

 

Vediamo ora perché relativismo e naturalismo siano in realtà tra loro incompatibili. Già sul piano logico, il naturalismo pretende di rappresentare l’interpretazione scientifica del mondo, e dell’uomo in esso. Non è pertanto compatibile con il relativismo, per il quale ogni interpretazione è semplicemente soggettiva e destituita di validità universale. Ma è soprattutto sul piano esistenziale, a livello del vissuto di ciascuno di noi, che la contraddizione esplode. Il relativismo, infatti, ha il suo nucleo nell’esaltazione e potremmo dire nell’assolutizzazione della libertà individuale, quindi nel valore e nella centralità del singolo soggetto. Ma è proprio questo ciò che viene radicalmente escluso dalla riconduzione del soggetto umano alla natura, a una natura che non sa niente di lui e non si cura affatto di lui. Questa contraddizione è alla base dello spaesamento e dell’inquietudine che affliggono oggi soprattutto i giovani, ma certo non soltanto essi. E’ qui la radice profonda di un certo affievolirsi della fiducia nella vita, anzi della voglia di vivere.

 

Il taglio delle proprie radici prende spesso la forma dell’odio verso la propria civiltà: si tratta di un fenomeno diffuso nell’Europa occidentale e ripetutamente denunciato da Benedetto XVI. Questo odio si rivolge particolarmente verso il cristianesimo, considerato il principale ostacolo al naturalismo e al relativismo, e a volte si insinua anche tra i credenti, svuotando dall’interno la fede cristiana e l’appartenenza alla Chiesa del loro vigore e del loro fascino.

 

Simili posizioni sono però lontane dall’essere da tutti condivise, anche nel cosiddetto “mondo laico”. Molti laici, infatti, ritengono di doverle rifiutare, per rimanere fedeli alle origini e alle motivazioni autentiche del liberalismo, che giudicano incompatibili con la dittatura del relativismo perché, come ha sottolineato Marcello Pera, al centro del liberalismo sta la dottrina dei diritti fondamentali dell’uomo in quanto uomo, che precedono ogni decisione sia degli individui sia degli Stati e si fondano su una concezione etica ritenuta vera e transculturale. Joseph Ratzinger, prima e dopo la sua elezione al Pontificato, ha motivato sul piano sia storico sia teologico questa nuova sintonia tra cattolici e laici, arrivando a sostenere che la distinzione tra gli uni e gli altri “deve essere relativizzata”. Ritengo anch’io che il loro rapporto non debba necessariamente esaurirsi in un semplice dialogo, pur rispettoso e amichevole, ma possa e debba dar luogo a vere forme di collaborazione, richieste dalla presente situazione storica.

 

E’ doveroso aggiungere però che non tutti i cattolici condividono l’apertura cordiale a quei laici che sostengono queste posizioni: non mancano infatti coloro che li vedono con sospetto, temendo – secondo me a torto –  che strumentalizzino la fede cristiana a fini ideologici e politici. Il motivo principale di tale diffidenza è che non pochi, sebbene cattolici, non appaiono realmente convinti della necessità di un impegno forte nel campo dell’etica pubblica. In concreto questi cattolici rimangono piuttosto legati, in materia di laicità, al quadro classico della divisione di competenze tra istituzioni civili ed istituzioni ecclesiastiche e mi sembrano non cogliere pienamente la portata della novità costituita dall’emergere delle attuali problematiche antropologiche ed etiche. Alcuni di loro sono anzi portati a rivendicare per sé l’autentica laicità, intesa come richiamo alla propria coscienza e come autonomia e indipendenza dal magistero della Chiesa nell’ambito dell’assunzione di responsabilità pubbliche e di scelte legislative. Sul piano politico e giuridico essi hanno certamente il diritto di agire così, ma non possono pretendere che questi comportamenti siano, per un cattolico, anche teologicamente ed ecclesialmente legittimi. Infatti, mentre per chi  non è cattolico gli insegnamenti della Chiesa possono avere valore solo nella misura in cui appaiano razionalmente convincenti, per i cattolici essi hanno valore anche e anzitutto in quanto sono espressione del messaggio cristiano nelle concrete circostanze storiche.

 

Spingendo l’analisi più in profondità, rimane attuale la celebre tesi del grande giurista tedesco Ernst-Wolfgang Böckenförde secondo la quale lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che esso stesso non può garantire e tra questi svolgono un ruolo peculiare gli impulsi e i vincoli morali di cui la religione è la sorgente. Molto recentemente Rémi Brague ha proposto un importante aggiornamento della tesi di Böckenförde: anzitutto estendendola dallo Stato all’uomo di oggi, che in larga misura ha smesso di credere nel proprio valore, a causa della sua tendenziale riduzione alla natura e  del predominare del relativismo. E’ l’uomo dunque, e non solo lo Stato, ad aver bisogno oggi di un sostegno che non è in grado di garantirsi da se stesso. In secondo luogo la religione non è soltanto, e nemmeno primariamente, fonte di impulsi e vincoli etici, come sembra pensare Böckenförde. Oggi, prima che di assicurare dei limiti e degli argini, si tratta di trovare delle ragioni di vita e questa è, fin dall’inizio, la funzione, o meglio la missione più propria del cristianesimo: esso infatti ci dice anzitutto non “come” vivere, ma “perché” vivere, perché scegliere la vita, perché gioirne e perché trasmetterla.

 

In una prospettiva di questo genere sembra da capovolgere l’idea assai diffusa secondo la quale il progresso e il futuro dell’Italia consisterebbero nell’omologarsi a quelle altre nazioni europee nelle quali si è andati e si sta andando sempre più avanti nel mettere tra parentesi l’eredità del cristianesimo. Al contrario, “l’eccezione italiana” – nei limiti in cui realmente esiste – può rappresentare un’indicazione positiva perché la società europea possa superare quella sua strana tendenza per la quale essa sembra compiacersi di prosciugare le energie vitali e morali di cui si nutrono le persone, le famiglie, i popoli. Proprio la percezione del valore decisivo di queste riserve di energie è ciò che accomuna oggi molti cattolici e laici e che indica un grande compito comune che ci attende.

 

Prendiamo ora in esame l’obiezione che viene continuamente riproposta, secondo la quale ogni riferimento a contenuti e valori oggettivi e non relativistici costituirebbe una inaccettabile limitazione della libertà e in concreto l’imposizione di una visione particolare, quella cristiana, anche a chi non la condivide. Un’obiezione di questo genere può anzitutto essere facilmente ritorta: proprio il relativismo, infatti, tende facilmente ad assolutizzarsi, cioè a negare la liceità di posizioni diverse dalle sue, perché le ritiene incompatibili con la libertà. In questi anni ne abbiamo avuto varie conferme pratiche, come nel caso delle agenzie per l’adozione dei bambini costrette a chiudere in Inghilterra se  non erano disponibili a patrocinare l’adozione da parte di coppie dello stesso sesso. In realtà nessuna società o consorzio umano può sussistere senza dotarsi di alcune norme che valgano per tutti i suoi membri. Perché una società sia libera ciò che conta è che queste norme vengano stabilite attraverso il libero gioco democratico e che attraverso il medesimo gioco possano essere modificate o anche cambiate integralmente. E’ questa la condizione comune in cui si trovano sia coloro che vogliono introdurre cambiamenti sostanziali nelle concezioni antropologiche ed etiche che erano condivise praticamente da tutti fino a un secolo fa, sia coloro che vogliono invece conservarle nella loro sostanza. Gli uni e gli altri possono ugualmente concorrere a stabilire le norme che valgono per tutti: prevarrà chi saprà ottenere la maggioranza dei consensi.

 

Ciò naturalmente non significa che competa a una maggioranza stabilire cosa sia vero o falso, e nemmeno cosa sia in se stesso giusto o ingiusto. Il gioco democratico non riguarda la verità delle cose, ma solo le regole comuni di comportamento. Coloro che, per motivi di coscienza, ritengono di non potersi adeguare a tali norme, è giusto che abbiano la possibilità dell’obiezione di coscienza. Se le leggi, in quel caso, non consentono tale obiezione, si potrà dare testimonianza delle proprie convinzioni in una forma più costosa ma anche più forte, affrontando le pene previste dalla legge. In effetti i più eroici ed efficaci obiettori di coscienza furono e sono i martiri cristiani delle diverse epoche storiche.

 

Vorrei infine cancellare l’impressione per la quale le posizioni che si rifanno a una matrice cristiana, sia perché animate dalla fede sia per motivi non di fede ma di cultura, sarebbero inevitabilmente prigioniere del passato e incapaci di aprirsi agli sviluppi e ai cambiamenti che ci attendono e sono anzi già in corso. Ho sottolineato infatti che il cristianesimo è la religione sia del logos, sia della libertà, sia dell’amore e della persona come essere in relazione. Sono questi i contenuti essenziali da salvaguardare e proprio essi aprono al futuro, che è appunto il frutto della nostra ragione e della nostra liberà e che può essere costruito in maniera utile e non distruttiva solo attraverso la capacità di relazionarsi all’altro e di collaborare con lui, come mostra tutta l’esperienza storica. Perciò non si tratta affatto di negare la storicità dell’uomo e il variare delle forme storiche in cui la convivenza umana si realizza. Si tratta solo di mantenere, in questo continuo variare, quei fattori essenziali che rendono possibile uno sviluppo autentico, perché conforme alla specificità e dignità irriducibile del nostro essere.

 

Per riassumere tutto si potrebbe dire che, come nel medioevo si ebbe una prevalenza unilaterale della verità sulla libertà, così la tentazione del nostro tempo è un’altrettanto unilaterale prevalenza della libertà sulla verità del nostro essere. Tenere distinti questi due piani, della libertà e della verità, ma anche cercare sempre di nuovo una loro possibile sintesi è la difficile impresa che il tempo in cui viviamo ha davanti a sé.

*Lectio magistralis del Card. Camillo Ruini alla Lettura annuale 2013 di Fondazione Magna Carta
Roma, 6 maggio 2013

Fonte: Quale ruolo della Fede in Dio nello spazio pubblico? | l’Occidentale.

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