Quelli che… “combattono” l’Isis e tifano per il Califfo | La Nuova Bussola Quotidiana

di Gianandrea Gaiani  02-10-2014

In una guerra combattuta, quasi al rallentatore, da una Coalizione che non sembra aver fretta di annientare il Califfato, le incursioni aeree dei Paesi arabi del Golfo hanno assunto fin dal secondo giorno un profilo molto basso e i loro comandi hanno rinunciato quasi subito a fornire aggiornamenti su raid aerei compiuti e gli obiettivi colpiti. La ragione è del tutto politica, perché fin dall’inizio delle incursioni sulla Siria, il 24 settembre, molti elementi hanno fatto emergere una forte e infastidita opposizione dell’opinione pubblica nelle monarchie del Golfo nei confronti di un intervento militare contro i “fratelli” sunniti dello Stato Islamico, al fianco degli infedeli Occidentali e indirettamente in aiuto dei governi sciiti di Baghdad e Damasco.

Aspetti ben noti ai governi di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Giordania e Bahrein che hanno messo in campo complessivamente una ventina di aerei da combattimento e rifornimento che a fine settembre avevano compiuto una quarantina di “sortite”. Fin dall’8 agosto, quando gli statunitensi diedero il via agli attacchi dal cielo con lo Stato Islamico in Iraq, i Paesi del Golfo avevano chiesto e ottenuto da Washington che non venisse data molta visibilità al fatto che quasi tutti i jet a stelle e strisce decollavano da basi in Kuwait, Qatar e Bahrein. Del resto un sondaggio effettuato in Arabia Saudita e pubblicato sul giornale panarabo al-Hayat evidenziò il 22 luglio scorso che il 92%degli intervistati considera che i membri dell’IS applichino correttamente i dettami dell’islam. Valutazione che non deve stupire, se si tiene conto che l’islam saudita (wahabita) non è poi molto diverso quanto a rigidità e decapitazioni da quello applicato dall’IS nei territori del Califfato.

La percezione, radicata da tempo in tutto il mondo islamico, che sia in atto una guerra tra sunniti e sciiti contribuisce a radicalizzare ancora di più le opinioni pubbliche delle monarchie della Penisola Arabica e ad allargare la frattura con i governi che hanno seguito gli Stati Uniti nella guerra all’IS pur se in modo blando e in termini militari quasi simbolico. Ciò nonostante, proprio il Pentagono, ha temuto a far sapere, nei giorni scorsi, innervosendo gli alleati, che la gran parte delle incursioni effettuate in quelle ore sulla Siria erano state compiute dai jet arabi.

Ancora ina volta il Paese più ambiguo è risultato il Qatar, non solo perché ha inviato i suoi jet Mirage 2000 a sorvolare la Siria ma finora pare non abbia sganciato una sola bomba sui miliziani del Califfo, ma anche perché l’emiro Tamin bin Hamad al-Thani ha detto alla CNN che i raid aerei contro lo Stato islamico falliranno se non cadrà il regime di Bashar al Assad.

«È necessario combattere il terrorismo», ma allo stesso tempo l’attività della Coalizione dovrebbe concentrarsi sulla destituzione del «regime di Assad. Se pensiamo di combattere il terrorismo lasciando in vita il regime ci sbagliamo perché i terroristi ritorneranno di nuovo» ha detto l’emiro. Ancora una volta quando c’è da opporsi a terrorismo ed estremismo le leadership di molti Paesi islamici si rifugiano dietro ambigui distinguo e patetici “anche ma” e non fa certo eccezione al-Azhar, la massima istituzione dell’Islam sunnita.

La partecipazione diretta di cinque paesi arabi (Arabia Saudita, Bahrain, Qatar, Emirati e Giordania ) alla Coalizione internazionale impegnata a combattere i jihadisti in Siria «accentua le divisioni settarie all’interno del mondo islamico» ha detto Abbas Shuman, il vice del gran mufti di al-Azhar. «Noi non vogliamo combattimenti né la guerra tra musulmani» ha spiegato il religioso in un’intervista all’agenzia Aki-Adnkronos International, aggiungendo che a suo parere «l’Occidente è in grado di sconfiggere l’IS da solo con i raid. Nonostante il nostro odio profondo contro l’IS abbiamo l’impressione che questo gruppo sia una creatura dell’Occidente, essendo un’estensione di al-Qaeda» ha aggiunto candidamente Shuman.

Le vicende più emblematiche che ben sintetizzano la disapprovazione dell’opinione pubblica sunnita per la guerra all’IS riguardano però i piloti dei cacciabombardieri impiegarti sulla Siria. Gli equipaggi di 4 F-15 sauditi, 8 ufficiali, mostrati in volto con nomi e cognomi dall’agenzia di stampa di Stato e celebrati cime eroi dai media hanno ricevuto minacce di morte e sono ora “ricercati dall’Isis”.

Secondo la stampa locale, uno di questi è figlio del principe ereditario, Salman bin Abdul Aziz. «I miei figli, i piloti, hanno adempiuto il loro obbligo nei confronti della loro religione, la loro patria e il loro re», ha commentato il principe ereditario, dicendosi «orgoglioso della professionalità e del coraggio» dimostrato. Problemi per i piloti anche negli Emirati Arabi Uniti dove il maggiore Mariam al-Mansouri, 35 anni, è stata ripudiata dal suo clan per aver guidato i suoi colleghi a bordo di un cacciabombardiere F-16 nelle operazioni contro l’IS.

L’agenzia di stampa palestinese Wattan ha pubblicato un comunicato in cui il suo clan (il secondo per grandezza ad Abu Dhabi) ripudia la pilota ed esprime invece sostegno allo Stato islamico. «Noi, la famiglia Mansouri degli Emirati Arabi Uniti – si legge nel comunicato – dichiariamo, qui pubblicamente, che ripudiamo Mariam al-Mansouri, così come chiunque prenda parte alla brutale aggressione internazionale contro il fraterno popolo siriano, a partire dalla nostra ingrata sorella Mariam al-Mansouri». «La nostra famiglia è fiera di tutti gli uomini liberi che difendono la loro causa e di tutti quelli che prendono le armi per difendere l’onore della loro nazione – prosegue la nota – Noi siamo fieri degli eroi sunniti in Iraq e nel Levante (chiaro riferimento all’IS) e di tutti quelli che alzano la bandiera della giustizia, ovunque sia».

Il maggiore al-Mansouri ha sette fratelli e una laurea in letteratura inglese. È entrata in aviazione nel 2007 e oggi è comandante di squadriglia. Le foto la mostrano con il velo islamico sotto il casco. A un giornale arabo ha raccontato di essere trattata come i colleghi maschi dai suoi superiori e che non ci sono differenze fra uomini e donne nell’addestramento e negli incarichi. Forse anche queste dichiarazioni hanno contribuito a far arrabbiare il suo clan o molta parte dell’opinione pubblica del suo Paese che, a dispetto della ricchezza petrolifera, resta molto tradizionalista.

Mischiando bombe (poche) e ambiguità (tanta) le monarchie del Golfo cercano di accontentare gli americani, che vogliono lasciare agli arabi il grosso della guerra all’IS, come nel 2011 lasciarono agli europei quella in Libia, e al tempo stesso evitare  malcontento e rivolte presso le loro opinioni pubbliche. Per questo tante risorse sono dedicate alla percezione del conflitto riducendone la visibilità mediatica e puntando su un’attenta gestione linguistica. Il termine “Stato Islamico” è stato infatti bandito dalle monarchie arabe per evitare di abbinare i bombardamenti a un bersaglio “islamico” e per togliere al Califfato la legittimità religiosa di forte presa popolare.

Il principe ereditario saudita Salman bin Abdul Aziz Al Saud sostiene che «teologi e accademici religiosi debbano denunciare la corruzione delle idee e delle azioni di Daesh (acronimo arabo per “Ad dawla al islamiya fi ‘Iraq wa Shem”, cioè Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, ndr) che danneggia l’immagine dell’Islam distorcendone il messaggio e proponendolo come religione di assassini e decapitazioni». Una posizione sentita anche dalle altre monarchie della regione.

«Ogni figura religiosa ed ogni luogo di culto e studio della religione musulmana devono scandire a chiare lettere che questo non è Islam e che questi non sono musulmani. Questa è una dottrina deviata», ha detto lo sceicco Khalid bin Ahmad Al Khalifa, ministro degli Esteri del Bahrein. Per il re di Giordania Abdallah, i jihadisti non dovrebbero nemmeno definirsi musulmani: «Sentirli parlare in nome dell’islam è terribile e scioccante», ha dichiarato il sovrano hashemita in un’intervista all’emittente televisiva Cbs. Quando c’è da adeguarsi ai ricchi emirati arabi Parigi arriva sempre prima e infatti il ministero degli Esteri francese, Laurent Fabius, ha comunicato che – per evitare confusioni e sovrapposizioni con Islam, musulmani ed islamici – l’acronimo ISIS sarà sostituito da quello arabo “Daesh” che però vuol dire la stessa cosa. In Inghilterra la questione è dibattuta sulla stampa, e a New York il segretario dell’Onu, Ban Ki-Moon, ha sottolineato la settimana scorsa durante la riunione del Consiglio di Sicurezza presieduta dal presidente Barack Obama, che «l’Isis dovrebbe essere definito lo Stato non islamico».

Mentre i paesi che lo hanno armato e finanziato discutono su come chiamarlo, il Califfato resiste in Iraq e si espande in Siria.

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