ROMA VAL BENE UNA MESSA – Da Porta Sant’Anna

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Il cattolicesimo è una brutta grana! Possiamo ammetterlo con gioia e con tremore.
E’ una brutta grana per via della carne che Cristo ha preso nel grembo di una donna. Così la nostra fragilità viene a trovarsi in un dramma di amore. L’amore di un Dio che si fa carne – una carne che si può mortificare e crocifiggere nella sua estrema debolezza – infonde la gioia e suscita il tremore. La gioia di poter essere raggiunti dall’amore di Dio nonostante la propria debolezza; di poter acciuffare, come il buon Ladrone, la salvezza anche all’ultimo istante della vita. Il tremore della seria responsabilità che comporta l’essere stati raggiunti da quell’amore e da quell’offerta di salvezza. La gioia di poter gridare che la croce ci ha salvati. Il tremore di non rendere vana, in noi e negli altri, quella donazione.

 

In uno dei tanti saggi di Joseph Ratzinger si leggono queste considerazioni:
“Un Gesù che sia d’accordo con tutto e con tutti, un Gesù senza la sua santa ira, senza la durezza della verità e del vero amore, non è il vero Gesù come lo mostra la Scrittura, ma una sua miserabile caricatura.
Una concezione del “vangelo” dove non esista più la serietà dell’ira di Dio, non ha niente a che fare con la vangelo biblico.
Un vero perdono è qualcosa del tutto diverso da un debole “lasciar correre”.
Il perdono è esigente e chiede ad entrambi – a chi lo riceve ed a chi lo dona – una presa di posizione che concerne l’intero loro essere. Un Gesù che approva tutto è un Gesù senza la croce, perché allora non c’è bisogno del dolore della croce per guarire l’uomo.
Ed effettivamente la croce viene sempre più estromessa dalla teologia e falsamente interpretata come una brutta avventura o come un affare puramente politico.
La croce come espiazione, come “forma” del perdono e della salvezza non si adatta ad un certo schema del pensiero moderno”.

 

Siamo in uno di quei momenti della storia in cui la croce ci interpella con tutto il suo carico, insieme dolce e pesante, di gioia e di tremore. Per rendere vana la croce non occorre un atto pubblico di apostasia, un disprezzo palese di Dio, e neppure una vita dedita al peccato. E’ sufficiente provare il piacere sottile e perverso del fascino di poter vivere pensando di stabilire cosa sia il bene e cosa il male. Per certi versi, si ripropone la tentazione che. agli inizi stessi della fede, Paolo rimprovera ai cristiani della Galazia: ” O stolti Gàlati, chi mai vi ha ammaliati, proprio voi agli occhi dei quali fu rappresentato al vivo Gesù Cristo crocifisso? Questo solo io vorrei sapere da voi: è per le opere della legge che avete ricevuto lo Spirito o per aver creduto alla predicazione?” (Gal 3, 1-2).
L’Apostolo si riferisce, chiaramente, al ritorno dei Galati alla legge di Mosè, cioè ad una salvezza che ha il suo merito nelle opere che si compiono, non in un dono che si riceve. Autosufficienza religiosa, insomma, resa tanto più suadente dalle opere compiute per Dio e secondo le prescrizioni di una legge che, tutto sommato, dice riferimento all’alleanza antica.
Non ci interessa qui il contesto teologico della lettera ai Galati. Ci interessa soltanto il cuore della questione: ci si salva per le opere della legge o per la predicazione della Chiesa?

 

Quali sono oggi le opere della legge? Accanto ad un cristianesimo legalista, sempre possibile, esiste un cristianesimo apparentemente sciolto da ogni vincolo di legge. C’è il cristiano dell’adempimento esteriore, e c’è il cristiano della libertà interiore. Le due cose dovrebbero coesistere in serena armonia. La verità che fa liberi, conduce all’osservanza esteriore. Questa, da parte sua, rappresenta la conferma che il cuore ha riconosciuto la forza della verità e si è lasciato plasmare dall’incontro con Cristo. Un riconoscimento che è obbedienza, e quindi umiltà di fede, ascolto premuroso e fecondo della parola di Dio trasmessa dalla Chiesa. Un cristiano va a Messa, prega e rispetta le norme della Chiesa non per adempiere ad opere esteriori, ma per dare sostanza all’incontro di amore che la presenza di Cristo ha determinato nella sua vita. Normalmente un cristiano del genere è contento di quanto gli altri fanno ed è sempre stimolato a poter fare qualcosa in più.
Al contrario, il cristiano che confida nelle sue opere, oggi è portato a concepire la fede in puro attivismo. Non sempre, ma quasi sempre, rimprovera il cristiano che va a Messa, che prega e che obbedisce alle norme della Chiesa, rammaricandosi che il rapporto con Dio si esaurisca nell’osservanza infruttuosa di alcuni precetti e non nell’impegno per il mondo. Tutto nella vita della fede deve rendere evidente e tangibile che si è preso sul serio il Vangelo. Solo che quest’evidenza, lungi dal riguardare il rapporto personale con Dio, cioè la conversione, deve tradursi in un continuo servizio agli altri. Va da sé che il mondo degli altri è un mondo variegato. Se non può esserci mai una preclusione o un pregiudizio – la croce è per tutti!-, deve esserci sempre il discernimento della fede. Perché non accada che andando incontro agli altri, ci si dimentichi di essere stati mandati da Colui che ha detto: “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14,6). Amare l’altro non può mai significare amare l’errore dell’altro, né il desiderio di portare la salvezza può significare il dovere di provare o approvare la situazione che occorre salvare.

 

Sembra che in questi nostri tempi molti cristiani abbiano dissolto la verità del vangelo in un servizio indistinto, genericamente confuso con l’amore. E, si sa, quando ci parlano di amore, ci sentiamo tutti deficienti in qualche modo. Abbiamo sempre eccessivi debiti di fronte all’Amore perché ci permettiamo di fiatare. Tanto più che citano S. Agostino e il suo “ama e fa’ quel che vuoi”, inneggiano alla libertà dei figli di Dio, e ci riempiono la testa di lezioni volanti di esegesi per dimostrare che Cristo ha liberato l’uomo da qualsiasi legalismo. Salvo il dirci che questo attivismo rischia, anch’esso, di diventare una forma subdola di legalismo, di autosufficienza, di compiacimento per quello che si fa e per come lo si fa.
La legge morale è oggi la grande imputata. Nessuno può imporre agli altri come vivere. Ciascuno si regola in base alla propria coscienza, e il giudizio della coscienza è insindacabile. Tutto vero nella teoria, tutto da dimostrare nella pratica.
Il Concilio Vaticano II insegna che “nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire. Questa voce, che lo chiama sempre ad amare, a fare il bene e a fuggire il male, al momento opportuno risuona nell’intimità del cuore: fa questo, evita quest’altro.
L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al cuore; obbedire è la dignità stessa dell’uomo, e secondo questa egli sarà giudicato. La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità.
Tramite la coscienza si fa conoscere in modo mirabile quella legge che trova il suo compimento nell’amore di Dio e del prossimo. Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità numerosi problemi morali, che sorgono tanto nella vita privata quanto in quella sociale. Quanto più, dunque, prevale la coscienza retta, tanto più le persone e i gruppi si allontanano dal cieco arbitrio e si sforzano di conformarsi alle norme oggettive della moralità” (Gaudium et spes, n. 16).

 

Come può accadere che Dio contraddica se stesso, che non ponga più l’uomo davanti al bene e al male? Come può accadere che i cristiani, chiamati ad illuminare con la verità del vangelo, si ritrovino nella stessa cecità da cui dovrebbero liberare? Come può accadere che essi stessi cadano nel cieco arbitrio e non riconoscano norme oggettive? Lasciar correre, essere solidali fino a valicare il limite tra il lecito e l’illecito, confondere la misericordia con il buonismo generico e generalizzante. Sono i modi molteplici in cui oggi si rischia di vanificare la croce.

 

A tutto questo, nato da una cattiva interpretazione del vangelo, si unisce la voce ammaliante delle moderne sirene. Il loro canto, che parla di amore, di libertà e di progresso, ha una presa ben maggiore che la predicazione della Chiesa. il primo ciarlatano che si presenti sulla piazza, ottiene maggiore credibilità che i pastori voluti da Cristo. La Chiesa predica, ma i cristiani non ascoltano. Basti pensare al divieto di appoggiare persone o programmi che, nella vita pubblica, siano in contraddizione con i valori non negoziabili. valori che possono essere percepiti e condivisi sulla base della ragione e che non ledono la laicità dello Stato. Anzi, finiscono per esaltarla, se è vero che la laicità non può prescindere dal rispetto della conoscenza naturale dell’uomo.

 

Ciò che sta accadendo in Francia in queste ore, deve preoccuparci. Non solo per il disprezzo delle leggi di natura, che per un cattolico sono intimamente congiunte al Creatore e al progetto della salvezza, ma anche per le ripercussioni che quei fatti assumono in una prospettiva più vicina a noi. e pure per il gioco sporco che si fa con la figura del Papa. Emblematico, a questo proposito, quanto scrive Michela Marzano su Repubblica: “Il messaggio d’amore del Vangelo è un messaggio inclusivo e non esclusivo. Non esiste una differenza tra un “noi” degno di rispetto e di stima e un “voi” da condannare, emarginare e correggere. Esistono solo tante persone diverse da rispettare nonostante le loro differenze – anzi, da rispettare forse soprattutto grazie alle loro differenze. È questo che ci sta insegnando e ricordando anche il nuovo Pontefice da quando nella prima udienza con i giornalisti, per rispettare i non credenti, decise di non intonare la classica e solenne benedizione apostolica e di limitarsi ad una benedizione silenziosa. Speriamo che questo segno di grande umiltà insegni anche a chi pensa di essere il portavoce della verità che non c’è amore più grande di chi permette a tutti, indipendentemente dal proprio credo, dal proprio genere e dal proprio orientamento sessuale, di godere degli stessi diritti. L’uguaglianza nella diversità, anche nella cattolicissima Italia” (24 aprile).

 

Si dice che l’ugonotto Enrico IV, di fronte all’offerta della corona di Francia, abbia pronunciato il celebre “Parigi val bene una messa”. Qui dovremmo applicare lo stesso principio a Roma, cioè all’Italia, anche se poi si tratta di una semplice benedizione e di altri gesti, consueti per un Papa. Pur di giungere all’esito agognato, si può tirare in ballo la Chiesa, distorcendo la verità delle cose. Non sia, infatti, da cosa la Marzano abbia dedotto la mancanza di rispetto del cattolicesimo per le persone omosessuali. Né tanto meno da dove abbia tratto il nesso tra la sua idea e l’atteggiamento del Papa, riconducibile alla sfera del rapporto privato con Dio e non a quello della natura. Non si capisce, infine, chi sia il generico portavoce della verità cui allude. Forse non le hanno spiegato che questo portavoce è per noi il Papa. Quindi il Papa insegnerebbe a se stesso, e a partire da un suo gesto. Un po’ tortuoso per chi, come l’illustre filosofa, ha dimistichezza con la logica! Se il portavoce della verità è il cattolico che non vuol cedere, allora bisogna prepararsi a tempi butti. Anzi, visto che il pessimismo preoccupa sempre tanti cattolici, diciamo a tempi non proprio belli. D’altronde Franco Grillini ha dichiarato: ” Si tratta quindi nei fatti della seconda rivoluzione francese, destinata a influenzare il continente come ai tempi di Napoleone anche perché in questo modo arriva a compimento quella rivoluzione liberale e libertaria che consegna ad ogni individuo le chiavi del suo destino senza la mediazione né della religione né dello Stato”.
Forse vale la pena di ricordare che la prima Rivoluzione Francese non fu affatto tenera con le teste dei cattolici. Ma forse è bene anche richiamare che oggi ci sarebbero ben poche teste da tagliare. Il che, nella prospettiva della croce, non è motivo di gioia e neppure di tremore.

 

don Antonio Ucciardo

Fonte: ROMA VAL BENE UNA MESSA – Da Porta Sant’Anna.

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