Serbia: tensioni fra Chiesa ortodossa e UE sul Kosovo – Vatican Insider

Riemergono le antiche divisioni con pesanti ripercussioni nel rapporto tra le religioni presenti sul territorio.

Raffaele Guerra

Roma

Lo scorso 19 maggio Serbia e Kosovo hanno siglato a Bruxelles uno storico patto per la gestione delle aree del Kosovo con popolazione serba, fra cui la Metochia. Questi territori sono ad oggi amministrati da strutture parallele dello Stato serbo. Eppure, non è tutto oro quel che luccica: a rovinare la festa sono arrivati due protagonisti fondamentali: l’influente Chiesa Ortodossa Serba e le stesse popolazioni serbe del Kosovo, con aspre critiche nei confronti di Belgrado e dell’Unione Europea. Si tratta di due voci in primo piano nella vicenda kosovara, non certamente di folclore nazionalistico.

Qualora l’accordo venisse ratificato, la Metochia e le altre municipalità serbe passerebbero sotto la diretta giurisdizione di Pristina, sebbene il patto faccia rimanere in ombra non pochi punti decisivi. Ad ogni modo, pare che si arriverebbe alla stipulazione di un’intesa associativa tra le municipalità di Kosovska Mitrovica, Leposavić, Zvečan e Zubin Potok. Tale associazione opererebbe nel contesto giuridico e amministrativo kosovaro con un margine di indipendenza in materia di sviluppo economico, educazione, sanità e pianificazione urbana. Dal punto di vista della sicurezza, la Serbia ritirerebbe i suoi corpi di polizia per formare un comando serbo-kosovaro nelle municipalità coinvolte dall’accordo.

Un secco rifiuto è arrivato da Marko Jakšić, deputato del Partito Democratico di Serbia e leader dei serbi del Kosovo:  “Cercheremo di spostare la resistenza dal nord del Kosovo a Belgrado”, ha dichiarato, “perché il tradimento non è in Kosovo, è nella capitale serba”. Dichiarazioni che non destano sorpresa, se si ricordano i numerosi appelli per l’annessione alla medrepatria che, “a furor di popolo”, la minoranza serba del Kosovo ha rivolto a Belgrado, dopo le devastazioni e gli attacchi subiti sino ad oggi da commando islamici albanesi.

La bocciatura più forte, però, è arrivata con un comunicato ufficiale della Chiesa Ortodossa Serba del 23 aprile scorso. Il Santo Sinodo ha definito l’accordo: “un totale ritiro delle istituzioni della Serbia dal territorio della sua provincia meridionale e una compromissione dell’autonomia limitata della comunità serba nell’area a nord del Ponte Ibar, nella Kosovska Mitrovica, entro gli insediamenti di Thaçi (premier kosovaro dal 2008, N.d.R.). Inoltre”, continua il comunicato, “si tratta di un indiretto e tacito riconoscimento del sistema di governo di Kosovo e Metochia che è indipendente dalle strutture governative serbe”. Se da un lato c’è la dichiarazione di una Chiesa nazionale che, come la maggior parte delle chiese ortodosse, in prima fila nella costituzione degli Stati-nazione, è legata a doppio filo con l’identità nazionale; dall’altro lato c’è la forte preoccupazione di una chiesa cristiana per il proprio gregge, assediato ormai da anni con attentati, devastazioni, omicidi, furti, aggressioni organizzati da commando islamici e tutti a carattere etnico-religioso.

A sottolineare la preoccupazione della Chiesa per i fedeli è stato, lo scorso 8 aprile, il vescovo Irinej di Backa, portavoce del Santo Sinodo serbo, dopo l’incontro del Patriarca con alcuni rappresentanti dello Stato. Egli ha sottolineato la grande differenza tra il parlare delle relazioni di vicinato fra due Stati e trovare delle soluzioni per la sopravvivenza fisica della popolazione cristiana in Kosovo. A chi accusava la Chiesa di ingerenza negli affari di Stato, Irinej ha risposto rivendicando il diritto del Santo Sinodo serbo di occuparsi dei propri fedeli in pericolo.

I toni del comunicato rilasciato il 23 aprile, inoltre, sono tutt’altro che morbidi: il premier kosovaro Hashim Thaçi, protagonista dell’indipendenza kosovara, è definito dalla Chiesa Serba: “un individuo ricercato dall’Interpol”. Sul premier kosovaro, infatti, ormai interlocutore internazionale per l’ingresso del Kosovo nell’UE e nell’ONU, pende ancora una mandato di cattura per traffici di eroina e cocaina, oltre che per la compromissione con il malaffare e i numerosi crimini di guerra a danno dei serbi.

Il duro comunicato della Chiesa non risparmia l’Unione Europea. La vera vincitrice nella firma del 19 aprile è infatti Catherine Ashton, la baronessa britannica divenuta nel 2009 Alto rappresentante degli Affari Esteri dell’UE e che dal 2011 porta avanti il tentativo di negoziato tra Serbia e Kosovo. Secondo il Santo Sinodo serbo, dunque, la firma sul trattato con il Kosovo è il tributo richiesto alla Serbia per il suo ingresso nell’Unione Europea, insieme al non opporre ostacoli all’ingresso del Kosovo nell’ONU. Prossimo passo previsto, il riconoscimento ufficiale del Kosovo come Stato sovrano.

Del resto, che la firma del 19 aprile sia stato il prezzo pagato dalla Serbia per entrare nell’UE è più che evidente. L’Unione Europea, infatti, aveva lanciato allo Stato serbo un ultimatum: se entro Martedì 23 aprile avesse accettato l’inizio degli accordi con il Kosovo, allora sarebbero partiti anche i negoziati per l’ingresso della Serbia nell’Unione. Già sabato 6 aprile il patriarca Irinej aveva scritto ai leader serbi di non “rinunciare, vendere o tradire” il Kosovo per una “nebulosa” promessa di ingresso nell’UE.

Lo stesso Santo Sinodo, inoltre, in una lettera dello scorso dicembre alle massime autorità serbe, aveva definito le trattative con il Kosovo “il suicidio del Paese”, accusando il governo di avallare i piani internazionali per “tagliare la giugulare e strappare via il cuore della Serbia”. In quel caso, parole dure erano state rivolte anche agli Stati Uniti. Il documento chiedeva infatti un impegno dello Stato per la dismissione della base militare statunitense di Camp Bondsteel, nel Kosovo, al fine di fermare ciò che veniva definito “una occupazione illegale in stile cow-boy delle terre serbe e delle risorse minerarie del Kosovo”.

Proprio alla fine di ottobre del 2012, infatti, il Segretario di Stato USA Hillary Clinton aveva visitato i serbi del Kosovo e, insieme al capo della diplomazia europea Catherine Ashton, aveva auspicato un ingresso di Serbia e Kosovo nell’Unione Europea. Gli USA, inoltre, tengono a che il Kosovo, baluardo del sentimento filo-americano nei Balcani, entri nella NATO – un ingresso che rappresenterebbe, agli occhi della comunità internazionale, un passo enorme nel processo di pacificazione dell’area.

La dura reazione della Chiesa Ortodossa Serba contro la prospettiva di un riconoscimento del Kosovo e la consegna di minoranze cristiane già molto perseguitate nelle mani dello stato kosovaro, a maggioranza sunnita, costituisce un capitolo del rapporto fra le chiese ortodosse e l’Unione Europea, quasi sempre trasformatosi in un braccio di ferro. La vicenda costituisce, inoltre, un capitolo del rapporto fra l’ortodossia e la tarda modernità dei nostri giorni, caratterizzata da radicali processi di secolarizzazione e dalla fine delle politiche informate da forti valori spirituali e culturali. In tutto ciò, resta la persecuzione ancora attiva, sebbene ridimensionata, di una popolazione cristiana nel cuore dell’Europa e il sentore che gli interessi internazionali e le mosse geopolitiche di UE e USA celino almeno una cecità politica che potrà pesare sul destino dei cristiani nel vecchio continente.

Fonte: Serbia: tensioni fra Chiesa ortodossa e UE sul Kosovo – Vatican Insider.

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