Sotto la dignità, nulla (o delle battaglie legali di Satana) – Prolife News

Quando ci preoccupiamo di essere all’altezza dei nostri compiti, delle persone, dei sentimenti, o ci definiamo “indegni” di ricevere qualcosa, esercitiamo l’umiltà. Se però cediamo alla tentazione di bollarci come “indegni”, perché non corrispondiamo alle nostre umanissime aspettative, anziché all’umiltà siamo indotti alla disperazione.
È questa una tentazione demoniaca, corollario del rifiuto della Grazia, una tentazione che, se scaturisce da una condizione fisica piagata da una malattia incurabile o da una disabilità grave, porta a negare il valore intrinseco, ineliminabile, della persona: “questa non è (più) vita”, “non ho più dignità”, “voglio morire dignitosamente”.
Tale tentazione, magari pietosamente dissimulata, può investire anche il prossimo (“ma lasciatelo morire, non vedete come soffre?”; “questo figlio non è degno di vivere, soffrirà troppo”, ed ecco l’aborto “terapeutico”).
Il credente – lo sappiamo – non vede nella vita un dono “a termine”, dismissibile quando pesa.
Ma seppur non credente, l’uomo razionale e sociale non può ignorare che una simile tentazione, qualora istituzionalizzata, “giustificata” e calata in legge o in sentenza, spalanca le porte ad esasperati, abusivi soggettivismi e ad un’antropologia efficientistica per cui solo se il corpo ci obbedisce, vale la pena vivere.

Su questo sfondo, la recente (19 luglio 2012) pronuncia della Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo sul caso Koch c. Germania mostra ancora una volta come le crepe da cui l’eutanasia attiva si fa strada nella coscienza e nell’ordinamento siano ormai talmente ampie da minacciare la stabilità dell’intero edificio collettivo giuridico-morale. Giudizio corroborato dalle non più eccezionali aberrazioni di cui giunge notizia dal civilissimo Belgio (http://www.tgcom24.mediaset.it/mondo/articoli/1077180/belgio-due-gemelli-hanno-ottenuto-il-diritto-alleutanasia-per-aver-perso-la-vista.shtml & http://www.ilfoglio.it/soloqui/17309).

In breve i fatti. La signora Koch, in seguito ad un incidente, diviene quadriplegica e necessita di ventilazione artificiale continuativa. Di concerto con il marito, decide di porre fine ad un’esistenza che ritiene undignified, chiedendo all’Istituto federale tedesco per i farmaci l’autorizzazione ad assumere un barbiturico per la “dolce morte”. La richiesta viene rigettata, perché in contraddizione con la legge tedesca in materia di sostanze stupefacenti, la cui finalità è evidentemente di fornire presidii alla vita e non alla sua cessazione. Pendente il ricorso contro l’Istituto, la signora Koch decide di non attendere oltre e, recatasi in Svizzera con il marito, si spegne in una clinica privata.
L’Istituto conferma in via “postuma” la propria decisione, così il vedovo Koch adisce il Tribunale Amministrativo di Colonia, ma il ricorso è dichiarato inammissibile perché non fondato sulla lesione di un diritto del ricorrente, bensì di un “diritto”  personalissimo e non cedibile. Il difetto di legittimazione attiva viene confermato in grado d’appello e dinanzi al Bundesverfassungsgericht. Il signor Koch, esauriti i ricorsi interni, decide quindi di indirizzare la propria doglianza alla Corte di Strasburgo.

In essa, lamenta la violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare di cui all’art. 8 CEDU (“clausola generale” amplissima ed elastica, come e più del nostro art. 3 Cost.). A detta del ricorrente, in tale norma rientrerebbe il “diritto” della coniuge a por termine alla propria vita nel modo ritenuto più opportuno. Considerata la naturale strettissima relazione tra coniugi, la lesione di questo “diritto” della signora Koch si sarebbe immediatamente trasformato in un danno per il marito, sotto forma di illecita interferenza, appunto, nella sua vita privata e familiare.

Strasburgo riconosce l’esistenza della legittimazione attiva in capo al ricorrente e la giustifica sulla base dell’intensità del legame tra i coniugi e del fatto che (ancora vivente la signora Koch) essi avessero proposto ricorso congiunto. Nel merito, la Corte è poi chiamata a risolvere il quesito se dall’art. 8 CEDU derivi un obbligo per i giudici nazionali di esaminare nel merito domande giudiziali come quella del signor Koch. Per rispondere, i giudici richiamano i precedenti in materia, ossia il leading case Pretty c. Regno Unito e la sentenza Haas c. Svizzera. Di entrambi vale la pena di schizzare un sommario.

La signora Pretty, affetta da SLA, aveva chiesto al Direttore della Procura britannica l’impegno formale a non perseguire penalmente il marito, dal quale ella desiderava ricevere la morte tramite iniezione letale. A fronte del rifiuto dei magistrati, aveva presentato una serie di ricorsi giurisdizionali, approdando come ultima ratio alla Corte di Strasburgo, la quale aveva tuttavia giudicato infondata in diritto la sua pretesa. L’art. 2 CEDU, a tutela della vita, non si prestava infatti alla lettura proposta dalla ricorrente: che lo Stato dovesse, cioè, “astenersi” dall’interferire nella decisione individuale di vivere o morire. In compenso, veniva avallata dai giudici la ricostruzione del menzionato art. 8 CEDU: il “diritto al rispetto della vita privata” (comprendente la scelta delle cure cui sottoporsi e, soprattutto, del modo in cui morire) risultava effettivamente conculcato dal divieto, nell’ordinamento inglese, di agevolare un suicidio. La Corte reputava però legittimo ai sensi dell’art. 8, co. 2 CEDU il citato divieto, poiché posto a tutela di rilevanti diritti.

Il signor Haas, sofferente di una grave sindrome bipolare, percorreva un analogo iter, lamentando dinanzi alla Corte la violazione dell’art. 8 CEDU, non per la presenza di un divieto di “suicidio assistito” nella permissiva legislazione svizzera, ma per l’assenza di un obbligo positivo, a carico dello Stato, di fornire all’“aspirante suicida” i mezzi idonei a compiere quanto si fosse proposto. La Corte di Strasburgo riteneva però ragionevole l’inesistenza di un simile obbligo attivo in capo allo Stato, e legittimo che la legge limitasse la somministrazione di barbiturici a pazienti completamente padroni di sé.

In quest’ultima sentenza, peraltro, veniva ribadito ed esplicitato dai giudici che l’art. 8 CEDU, coprendo anche il “diritto” dell’individuo a scegliere come morire, fonderebbe la pretesa ad una valutazione nel merito della propria domanda giudiziale (impregiudicato poi il verdetto su di essa). Detto ragionamento è fatto proprio dalla Corte anche nel caso dei coniugi Koch. Un caso isolato? non proprio: perché se pure la sentenza spiega effetti tra le sole parti, essa però incide come soft law a tutti i livelli, per l’autorevolezza del tribunale che la pronuncia.

Pur nel doveroso rispetto e nella inevitabile com-passione per le tragiche sofferenze che sono l’humus di queste vicende giudiziarie, non ci si può esimere da alcune considerazioni.

1. Colpisce anzitutto il conflitto logico tra le pretese laico-liberali degli ultimi decenni, che rivendicano uno Stato moralmente indifferente e non schierato riguardo alle opzioni etiche dei consociati, e la pressante domanda di “attivismo” giuridico da parte dei ricorrenti: una presenza sulla scena morale che si vorrebbe manifestata con leggi (legittimanti l’“uccisione pietosa”) o con sentenze compiacenti, quando non, addirittura, con il positivo attivarsi dello Stato per “aiutare” l’individuo ad ammazzarsi.

Non è peraltro l’unico conflitto logico-giuridico che si ravvisa, se è rimasto vero lo scopo dell’aggregazione sociale e politica chiamata Stato, che almeno tendenzialmente dovrebbe operare e legiferare per la conservazione dei propri cittadini piuttosto che per la loro (auto)eliminazione.

2. Risalta l’arbitrarietà nel definire i confini interpretativi legittimi e sensati di una norma, quale l’art. 8 CEDU, che al primo comma recita “ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza” in una sorta di variante dell’habeas corpus che anche la nostra Costituzione ovviamente conosce; norma che però, nella prassi applicativa, viene riempita di significati anche lontanissimi dalla ratio della Convenzione.

Il che non sarebbe troppo grave, se tale “slabbratura” non fornisse puntualmente sponda per il riconoscimento di pseudo-“diritti” quasi sempre afferenti all’inizio e alla fine della vita, fasi di fragilità massima della persona, realtà biologiche e antropologiche provenienti da secoli di riflessione filosofica, religiosa e letteraria, ma trascinate dinanzi a una Corte – la cui impostazione è, nella maggioranza dei casi, laicista e libertaria – per essere liquidate come “questione privata” scevra da qualunque “interferenza” pubblicistica.

3. Difficile non trovare atomistica e autoreferenziale la prospettiva di questi ricorsi giurisdizionali: la mia morte è faccenda privata, la mia vita non significa nulla per la società, la mia malattia non necessita di cura, sostegno e amorevole protezione da parte dei miei cari, ma deve armare la loro mano contro di me. La visuale si restringe al perimetro dell’individuo-monade, o al massimo del suo congiunto (e aspirante carnefice). Un ennesimo vulnus a quel diritto naturale che nei familiari – e nel coniuge in particolar modo – vede il completamento nell’amore, per l’apertura a un disegno di vita e di condivisione, non certo uno strumento mortifero, ancorché armato dal silenzioso grido di chi soffre.

4. Afondamento delle rivendicazioni eutanasiche sta soprattutto il malinteso sulla  “dignità” menzionata all’inizio. Una parola-grimaldello per far entrare nella legge ciò che la legge dovrebbe evitare; una parola-specchietto, che rende politically correct, socialmente rispettabile ed emotivamente coinvolgente la “battaglia di civiltà” di un marito per l’uxoricidio pietatis causae. Davvero la dignità sta nell’afferrare e buttare una vita mai appartenutaci, davvero è più degno morire in nome di un rifiuto, piuttosto che vivere accogliendo il (pur doloroso) limite della malattia e della naturale fine dell’esistenza terrena?

Uno degli (innumerevoli) insegnamenti della Passione di Nostro Signore, che ci accingiamo a commemorare e celebrare nelle prossime settimane, è proprio che la nostra vita acquisisce senso e fecondità quando sembra aver perduto ogni ragionevole prospettiva, quando la condanna (la Croce) non ha più appello, la nostra fine è segnata, il nostro corpo paralizzato, inchiodato.

Satana era presente e se lo ricorda bene, per questo la sua rabbiosa invidia si sfoga sui più deboli, illudendoli che amore e dignità possano essere iniettati in vena da un Pilato compiacente.

Presentare il messaggio di Gesù Cristo significa tracciare il cammino che Egli ha tracciato. Per esser degni della Sua dignità. E diciamo: ogni persona del nostro popolo ha diritto a vedere rispettata questa dignità e non a vederla calpestata. Calpestare la dignità di una donna, di un uomo, di un bambino, di un anziano è un peccato grave che grida al Cielo.

Card. J. M. Bergoglio, 2002

di Ilaria Pisa

Fonte: Sotto la dignità, nulla (o delle battaglie legali di Satana) – Prolife News.

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