Ungheria – Si conclude ufficialmente la revisione del processo-farsa inscenato dal regime di Rákosi

di ANDREA POSSIERI

Per ogni cosa c’è il suo momento. Oggi è venuto quello della giustizia degli uomini. La notizia è di qualche giorno fa: il servo di Dio, cardinale József Mindszenty, che nel 1949 fu arrestato e condannato all’ergastolo con l’accusa di alto tradimento dal Tribunale popolare di Budapest, ha avuto la definitiva riabilitazione legale, morale e politica. Con l’ordinanza della Procura generale si conclude ufficialmente la revisione del processo-farsa inscenato dal regime di Rákosi.

Si tratta, indubbiamente, di un atto politico dall’alto valore simbolico che chiude definitivamente in Ungheria un’epoca storica, quella del regime comunista, in cui il cardinale Mindszenty è stato il simbolo indiscusso della Chiesa martirizzata e della lotta intransigente contro la dittatura.
La notizia di per sé potrebbe anche apparire banale per la sua scontata essenzialità. L’ex Primate d’Ungheria e arcivescovo di Esztergom (l’antica Strigonia) è stata una delle più celebri vittime di quel perverso sistema politico-giudiziario – cardine e simbolo indiscutibile dello stalinismo – che caratterizzò le vicende politiche di tutte le cosiddette “democrazie popolari” tra il 1949 e il 1953. Tuttavia, la drammatica vicenda biografica del cardinale Mindszenty rimanda a qualcosa di molto più profondo della consueta analisi sistemica dei regimi comunisti.
Rimanda, innanzitutto, a un giudizio storico complessivo sul comunismo e a una disamina sulla reale percezione di quei sistemi politici al di fuori di quei Paesi che sperimentarono la dittatura. La discrasia tra il mito e la realtà, infatti, tra le premesse escatologiche di quell’ideologia che prometteva la liberazione dell’uomo dalle catene di un asservimento secolare e le conseguenze catastrofiche, morali e umane che invece aveva prodotto quell’ideologia una volta che si era trasformata in regime, non è ancora diventata senso comune condiviso.
E anche in virtù di questo, la biografia del cardinale Mindszenty rimanda a due altri elementi cruciali che hanno contraddistinto la storia del Novecento: la pervicace e ossessiva persecuzione religiosa messa in atto da tutti quei regimi e l’eroica testimonianza di fede di migliaia di credenti che hanno dato la vita in nome di Cristo, spesso in silenzio e senza i clamori del martirologio politico così tipico nel XX secolo. Da questi punti di vista la biografia del cardinale Mindszenty è indubbiamente paradigmatica.
Una vicenda umana che lo ha visto in carcere per ben tre volte. Viene arrestato la prima volta il 20 marzo 1919 dal Governo socialista di Mihály Károly e rimane in carcere fino alla fine del regime comunista di Béla Kun il 1° agosto dello stesso anno. Viene imprigionato e accusato di tradimento una seconda volta il 26 novembre 1941 per essersi opposto al Governo delle Croci Frecciate. E, infine, viene arrestato il 26 dicembre 1948, il giorno di Santo Stefano, dal regime comunista di Rákosi.
Imprigionato e torturato viene processato tra il 3 e il 6 febbraio del 1949. La condanna all’ergastolo viene presentata come una condanna mite rispetto alla pena di morte richiesta per chi è accusato di tradimento e spionaggio. Rimarrà imprigionato fino al 1956 quando la primavera ungherese di Nagy lo rimetterà in libertà. Fu il maggiore Antál Pálinkás a liberare il cardinale Mindszenty. Un gesto che gli sarebbe costata la vita. Fu impiccato dal regime di Kádár nel 1957.
Dal 1956 al 1971 la vita del Primate ungherese, invece, si svolse all’interno di una particolare clausura: l’ambasciata statunitense di Budapest. Riuscito a fuggire in circostanze fortunose all’offensiva sovietica che represse nel sangue la rivoluzione ungherese del 1956, per quindici anni trovò rifugio presso la sede diplomatica nordamericana fino a quando, dopo i pressanti inviti di Paolo VI, lasciò l’Ungheria. Morì nel 1975 a Vienna e nel 1991 le sue ceneri vennero solennemente trasportate da Mariazell a Esztergom per essere tumulate nella cripta della basilica.
Questa, in estrema sintesi, la vita pubblica del cardinale Mindszenty. Due sono i momenti cruciali, però, su cui vale la pena riflettere per comprenderne la figura e anche il significato della sentenza attuale di riabilitazione: il processo del 1949 e il momento della morte del 1975.
Il processo si svolse, infatti, in un clima politico particolarissimo. Nel momento in cui erano all’apice sia la diffusione del mito dell’Urss nel mondo occidentale che la costruzione dell’impero sovietico nell’Europa dell’Est. Da un lato, veniva veicolato, in tutto il mondo, con la responsabile complicità di una parte importante del ceto intellettuale dell’epoca, il mito-modello della terra dei Soviet concepito alla stregua di un Paese pacifico e grandioso, principale artefice della vittoria contro il nazismo e impegnato nella costruzione di un mondo in cui regnava il benessere materiale e quello morale. Dall’altro lato, invece, si stagliava la cruda realtà di uno Stato impegnato a edificare il potere periferico di un impero che riproduceva, sia nei suoi elementi materiali che in quelli simbolici, tutti i ferrei principi dello stalinismo.
L’ascesa al potere dei partiti comunisti nell’Europa orientale, seppur attraverso una tattica gradualistica, fu infatti contrassegnata da un unico obiettivo: l’instaurazione della dittatura del proletariato sotto la forma della tirannia del partito unico.
Nel settembre del 1946, come annotò il bulgaro Dimitrov, Stalin presentò la democrazia popolare come una “conveniente maschera” destinata a essere sostituita dal “programma massimo”.
È in questo contesto che avviene non solo la drastica rottura delle relazioni fra i Paesi comunisti e la Santa Sede, ma anche gli arresti, le condanne e le reclusioni di vescovi, sacerdoti e religiosi. Oltre che la confisca di beni ecclesiastici, la chiusura totale o parziale dei seminari, la soppressione delle scuole e delle organizzazioni cattoliche e, infine, una capillare propaganda ateistica. Propaganda che ebbe i suoi riflessi anche all’interno della vasta eco, nell’opinione pubblica occidentale, che suscitò il processo a Mindszenty.
Il cosiddetto Libro giallo – un elenco delle presunte confessioni del cardinale estorte sotto tortura – reso noto dalle autorità ungheresi dopo il processo, era soprattutto un atto di accusa durissimo contro la religione e le associazioni cattoliche.
E non a caso Ottavio Pastore, un senatore del Partito comunista italiano che venne invitato dal regime ungherese a vedere di persona il prelato ungherese per “smentire la voce che era già stato deportato in Siberia”, scrisse un pamphlet nel 1949, intitolato Mindszenty. I documenti nascosti dal Vaticano, che mirava a smascherare il complotto “vaticanesco” contro la Repubblica ungherese. Un libercolo che iniziava con parole eloquenti: “Il processo svoltosi a Budapest (…) ha svelato come la religione, le organizzazioni cattoliche, l’autorità del clero siano state utilizzate nella lotta politica ingaggiata per restaurare con gli Asburgo le vecchie strutture economiche e sociali, per distruggere con la giovane repubblica le grandi e profonde riforme strutturali realizzate dopo la liberazione dai fascisti tedeschi e magiari”.
Ma se questo tipo di opuscoli, tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta, furono contrastati da una vivace opposizione, a partire, ovviamente, dalla lettera apostolica Acerrimo moerore con cui Pio XII condannò pubblicamente le torture e l’incarcerazione del cardinale, tutt’altro clima si registrò, invece, al momento della morte di Mindszenty quando, invece, la vicenda biografica del cardinale era diventata, ormai, per larga parte dell’opinione pubblica occidentale solo una questione personale.
Molti organi di stampa, infatti, dipinsero il prelato come un “vescovo del passato” che non rappresentava lo spirito moderno che soffiava nella Chiesa. Ovvero lo spirito conciliare. Molto più che la Ostpolitik vaticana, infatti, fu la lettura e l’interpretazione del concilio Vaticano II, che sin da subito venne effettuata da una parte del mondo intellettuale, compreso quello cattolico, a decretare una sorta di emarginazione culturale e ideale della figura dell’ex Primate ungherese.
La battaglia di Mindszenty, scrive Carlo Bo sul “Corriere della Sera” del 7 maggio 1975, “era finita con l’avvento di Giovanni XXIII”. Fu in quel momento, si legge nell’articolo, che “l’affare Mindszenty cominciò ad apparire come un fatto personale: in parole povere non era più un simbolo, non era più una bandiera”. Il prelato ungherese, in definitiva, veniva rappresentato solo come l’emblema “di una Chiesa immobile, che si opponeva alla decifrazione dei segni dei tempi” e “il difensore di un cattolicesimo che si era confuso con un tipo di società ben precisa e ormai morta”.
Questi giudizi, oggi, vanno letti con il necessario distacco storico e inseriti in quel particolare contesto in cui furono formulati. E anche per questo, la recente sentenza di riabilitazione assume un significato importante: restituire al servo di Dio Jószef Mindszenty il ruolo storico che gli spetta. Quello di martire e testimone della fede nel XX secolo. “Anche se avevo sperimentato l’orrore dell’odio – scrive il prelato nelle sue memorie – anche se avevo imparato a conoscere la faccia del diavolo, proprio il carcere mi insegnò a fare dell’amore il principio direttivo della vita”.

(©L’Osservatore Romano 5 aprile 2012)

Fonte: Swww.orientecristiano.com.

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