Unioni gay, dalla padella di sinistra alla brace di destra

di Alfredo Mantovano  27-03-2015

Primo sì in Senato alle unioni gay. Con 14 sì, 8 no e un astenuto, la commissione Giustizia di Palazzo Madama ha approvato il testo base della relatrice Monica Cirinnà (Pd) che regolamenta le unioni civili tra persone dello stesso sesso consentendo anche le adozioni gay tramite l’istituto dello Stepchild Adoption. Ma anche il ddl presentato da Forza Italia non si discosta molto da quello del Pd. Vediamo.

L’intenzione è apprezzabile, il risultato molto di meno. I componenti della Commissione Giustizia del Senato di Forza Italia non condividono il testo sulle unioni civili predisposto dalla senatrice Cirinnà, soprattutto nella versione depositata qualche giorno fa (clicca qui), presumibilmente perché lo ritengono simile al regime matrimoniale. Ma l’articolato che reca come prima la firma del senatore Caliendo nella sostanza è strutturato come quello della relatrice: è uno strumento innovativo e non meramente ricognitivo e, come il d.d.l. Cirinnà, adopera il termine “unioni civili”, dal quale derivano precise conseguenze: a differenza di quello della relatrice, lo riferisce a persone sia dello stesso sia di diverso sesso E però, essendo pure la disciplina contenuta nel d.d.l. Caliendo molto vicina a quella del matrimonio, è arduo che la utilizzino due soggetti di diverso sesso: se costoro vogliono acquisire i diritti e i doveri del matrimonio si sposano, altrimenti scelgono di convivere. Dunque, gli interessati a tale disciplina sono solo le persone omosessuali.

Vediamo il dettaglio. L’articolo 5 stabilisce che la cessazione dell’unione civile avviene a seguito di «matrimonio tra le parti dell’unione» (lett. c): sembra un modo per preparare la possibilità di matrimonio anche tra persone dello stesso sesso. Ipotizzarlo non è privo di senso, visto che la previsione è per le unioni eterosessuali come per quelle same sex. Immaginiamo, però, il caso della parte di una unione civile che contrae matrimonio con persona diversa dal convivente: la mancanza di impedimento al matrimonio pone questa unione civile in un’evidente posizione svantaggiata, e il terzo che sposa questo contraente inizierà il rapporto coniugale con un coniuge impegnato ad affrontare i problemi giuridici e personali derivanti dalla precedente unione civile, “cessata” in modo così repentino. Il tempo necessario a percorrere l’iter di separazione o di divorzio consente, infatti, quantomeno un periodo utile per disciplinarne le conseguenze, in particolare a tutela delle parti più deboli. Non potrà escludersi, con forme così tenui, che qualcuno mantenga contemporaneamente un’unione civile e un matrimonio in città diverse; non si capisce peraltro chi e con quali modalità informa l’altro contraente dell’unione civile dell’avvenuto matrimonio e della conseguente istantanea cessazione dell’unione stessa.

L’articolo 6 prevede che, in caso di divorzio conseguente a sentenza passata in giudicato per il cambiamento di sesso di una delle parti, le parti stesse possono proseguire il rapporto come unione civile; tale norma equipara nei fatti ancor di più l’unione civile al matrimonio. A proposito dell’articolo 10, che al comma 3 stabilisce invece una pubblicità dell’intera convenzione fra le parti di una unione civile, va ricordato che il regime patrimoniale della famiglia non prevede la pubblicazione del contenuto degli accordi (comunione/separazione dei beni): stabilire diversamente per le unioni civili lede in modo grave la riservatezza. L’articolo 11 richiama gli obblighi di assistenza morale e materiale fra le parti che costituiscono una unione civile: a differenza del d.d.l. Cirinnà, non elenca espressamente gli articoli del codice civile sui doveri dei coniugi, ma – con tale terminologia – il giudice interpreterà gli obblighi guardando proprio agli articoli che vengono letti al momento della celebrazione del matrimonio.

L’articolo 12 disciplina il diritto della parte meno agiata al sostegno economico nell’ipotesi di cessazione dell’unione civile, con corrispondente dovere dell’altra parte: è la medesima logica del mantenimento che presuppone l’esistenza di una famiglia, dopo la rottura del vincolo matrimoniale. Si prevede che il mantenimento duri per almeno cinque anni: in ragione di cosa se non della istituzione di un regime parafamiliare? Identico discorso vale per l’articolo 13, che pone l’obbligo degli alimenti. La differenza con la famiglia è che non ci sono i tempi – pur in via di contrazione – e le spese del divorzio: qui, come s’è detto, per risolvere l’unione è sufficiente una dichiarazione; gli effetti in termini di alimenti e mantenimento sono però gli stessi.

L’articolo 15 prevede diritti successori in caso di unione civile che dura da più di nove anni parificabili a quelli del matrimonio, con apertura all’accesso alla quota di “legittima” (co. 2 lett. b). Analoga parificazione al matrimonio c’è per le agevolazioni fiscali (articolo 23). La previsione di diritti successori è segno evidente della pretesa paraconiugale: una mera disciplina dei rapporti patrimoniali non potrebbe mai regolamentare diritti mortis causa al di fuori del testamento. É poi contraddittorio assegnare al convivente che sopravvive usufrutto e anche uso e abitazione (co. 3) in quanto i secondi sono diritti più limitati del primo; quindi, o gli uni o l’altro. Comunque si moltiplicheranno i contenuti: la previsione del diritto di usufrutto su una quota di eredità è talmente farraginosa e intrecciata con i diritti degli eredi da determinare incertezze interpretative e sicure conflittualità.

La delega in tema di salute stabilita dall’articolo 16 comma 2 appare pericolosa: la lett.a) potrebbe essere adoperata come strumento per decidere il fine vita, mentre le modalità di revoca della delega stessa sono altrettanto a rischio, essendo più complicate della revoca di un testamento! Il solo aspetto positivo della proposta di Forza Italia rispetto al Cirinnà è l’esclusione dell’art. 44 lett. b) della legge sull’ adozione. È però un’esclusione che ha limitata possibilità di sopravvivenza. Dopo la sentenza della Corte europea Schalk e Kopf del 24 giugno del 2010, una volta che uno Stato Ue approva una legge sulle “unioni civili”, ogni disparità di trattamento tra le unioni civili e il matrimonio è sanzionata dalla Corte come violazione della Convenzione europea sui diritti dell’uomo: se le unioni civili omosessuali sono regolamentate in modo simile al matrimonio, non ci saranno più limiti di differenziazione rispetto al matrimonio medesimo senza che sia violato il principio di non discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale tanto caro alle Corti europee. Lo Stato al cui interno si manifesti una simile discriminazione – riguardante per es. la possibilità di adozione – verrebbe immediatamente richiamato a rimuoverla. E quindi ci ritroveremmo per intero con quel d.d.l. Cirinnà dal quale il d.d.l. Caliendo intende discostarsi.

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