Al-Shabaab esporta la guerra in Kenya

«L’attacco al WestgateMall è soltanto una piccolissima frazione di quello che i musulmani somali hanno sofferto per mano degli invasori keniani. I mujaheddin che oggi sono penetrati al Westgate hanno ucciso più di cento infedeli keniani e la battaglia prosegue». I miliziani somali di al Shabaab non potevano essere più chiari nella rivendicazione dell’assalto di sabato al centro commerciale di Nairobi. Sono loro gli autori della sanguinosa impresa (che avrebbe fatto una settantina di morti) e la spiegazione del loro gesto sta nella volontà di esportare la guerra somala in Kenya. Uno scotto che i fondamentalisti islamici hanno voluto far pagare ai politici di Nairobi colpevoli, ai loro occhi, di essere intervenuti militarmente nella lunghissima guerra civile somala.

Era il 2011 quando il Kenya ha deciso di varcare il confine e iniziare a combattere al Shabaab. Due gli obiettivi dei keniani: evitare che la guerra si estendesse al proprio territorio (nel quale abitano una consistente minoranza somala e migliaia di rifugiati somali) e proteggere le coste settentrionali al largo delle quali si troverebbero ricchi giacimenti petroliferi. I soldati di Nairobi non hanno dato una grande prova di sé. Male armati e male addestrati, hanno fatto fatica ad affrontare milizie che da anni controllano con efficacia il territorio. La stessa conquista di Chisimaio, la principale città portuale della Somalia meridionale, avvenuta il 3 ottobre 2012 e attribuita ai soldati keniani, molto probabilmente è stata strappata ai miliziani islamici da truppe speciali occidentali. Secondo fonti diplomatiche europee interpellate da Popoli, sarebbero infatti stati i commando francesi e britannici a occupare il centro, seguiti a distanza dai militari di Nairobi.

Nonostante la scarsa capacità militare, il Kenya sta giocando un ruolo importante nella Somalia meridionale. Sarebbe proprio il Kenya ad appoggiare Ahmed Madobe, il signore della guerra che si è autoproclamato presidente del Jubaland in contrapposizione con il governo centrale di Mogadiscio (che poi con un’intesa siglata il 29 agosto ha riconosciuto il suo potere). Ciò però non ha in alcun modo limitato l’influenza degli al-Shabaab che continuano a controllare quasi interamente la provincia del Gedo e larghe porzioni delle province del Medio e Basso Giuba.

Non è solo il Jubaland a essere in balia delle milizie islamiche. Gli al-Shabaab, che sono nati nel 2006 da una costola delle Corti islamiche e che godono del sostegno della rete di al-Qaeda, di fatto controllano quasi tutta la Somalia centrale e meridionale. «A dispetto delle dichiarazioni ufficiali – spiegano alcuni deputati italiani che la scorsa settimana hanno incontrato il presidente somalo Hassan Sheikh Mohamud in visita a Roma -, il governo federale è in grado di controllare solo un quartiere di Mogadiscio (quello vicino all’aeroporto) e poche altre aree. Il resto è in mano ai fondamentalisti che di notte spadroneggiano per le vie della capitale e possono colpire come e quando vogliono».

Il governo federale si regge infatti solo grazie al sostegno delle truppe ugandesi e burundesi dell’Amisom (la missione sotto l’egida dell’Unione africana). Ma anche queste spesso sono costrette sulla difensiva. I soldati di Kampala, meglio armati e addestrati, riescono a contrastare i miliziani islamici in campo aperto, ma nulla possono contro gli attacchi a sorpresa. I loro mezzi sono obsoleti e non li proteggono dalle auto-bomba e dagli ordigni nascosti. I burundesi sono in condizioni assai peggiori. Il loro contingente è formato da ex ribelli hutu, con scarsissima preparazione militare e con mezzi non adeguati.
I militari dell’Amisom commettono frequenti abusi sulla popolazione civile e vendono gli aiuti invece distribuirli gratuitamente. Ventiquattro soldati ugandesi sono stati rimandati in patria il mese scorso perché accusati di aver venduto cibo. In realtà se fosse stato solo cibo le autorità non li avrebbero rimpatriati. È molto più probabile che siano stati trovati a vendere armi e munizioni ai miliziani islamici.

Anche l’Etiopia non ha un ruolo chiaro nella crisi. Addis Abeba, come presidente dell’Igad, è il partner principale dei Paesi donatori per gestire i rapporti con il governo centrale. In realtà, gli etiopi lavorano per un governo centrale somalo molto debole e periferie forti ma, allo stesso tempo, non completamente pacificate nelle quali l’esercito di Addis Abeba possa giocare un ruolo di dominus. In questo contesto ci si potrebbe chiedere se l’Etiopia abbia davvero intenzione di sconfiggere al-Shabaab. Probabilmente non ha alcun interesse perché i fondamentalisti minano la stabilità somala e quindi fanno il gioco degli etiopi. E infatti si parla sempre più spesso di iniziative ambigue da parte dei militari di Addis Abeba. Questi ufficialmente riforniscono le milizie governative di armi funzionanti, ma vecchie. Queste armi vengono stoccate in bunker costruiti ad hoc nei villaggi. A fare la guardia a queste casematte vengono posti i miliziani locali filogovernativi poco addestrati. Di notte gli al-Shabaab uccidono le guardie e si impossessano delle armi. Queste armi sono sufficienti a combattere le milizie somale, ma non l’esercito etiope che è ben armato e addestrato dagli Stati Uniti. Questo non risponde a una precisa strategia degli etiopi?
Enrico Casale

Fonte: Al-Shabaab esporta la guerra in Kenya.

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