Bahrein: primavera mancata – MissiOnLine.org

di Chiara Zappa

Nell’arcipelago del Golfo, sede di troppi interessi incrociati, le rivendicazioni del popolo sono state represse nel sangue. Ma qualcosa forse sta cambiando

Contraddittorio. È senz’altro questo l’aggettivo che meglio descrive il piccolo arcipelago del Bahrain, il “regno dei Due mari” situato nel cuore del Golfo Persico. Questo Paese che, alle nostre latitudini, è noto soprattutto per il Gran Premio di Formula 1, previsto quest’anno dal 19 al 21 aprile, costituisce da tanti punti di vista uno Stato chiave nell’area: non solo per la sua posizione geografica, proprio dirimpetto all’Iran, sul confine tra due Continenti, ma anche perché, ospitando nelle sue acque la Quinta Flotta statunitense, è considerato un “baluardo filo-occidentale” in una regione incandescente.

A completare il quadro, si aggiunge il fatto che il Bahrain, Paese dove lo stile di vita è caratterizzato da un interessante mix tra legame con la tradizione e aperture culturali notevoli, è governato dalla dinastia degli Al Khalifa, rappresentante della minoranza musulmana sunnita da sempre accusata di discriminare la popolazione maggioritaria, appartenente invece alla confessione sciita.

Tanti complessi elementi si sono intrecciati nel condizionare pesantemente, negli ultimi due anni, sia le scintille di rivolta popolare accesesi sull’onda lunga delle rivolte arabe, sia le risposte internazionali a queste stesse scintille.

Facendo del Bahrain il Paese dove la primavera continua a non sbocciare. «Questa è la rivoluzione araba che è stata abbandonata dagli arabi, lasciata sola dall’Occidente e dimenticata dal mondo», ha sintetizzato efficacemente l’emittente del Qatar Al Jazeera. Nel febbraio del 2011, i manifestanti scesero per le strade della capitale Manama e occuparono la centrale piazza della Perla (che deve il suo nome al monumento, ora rimosso, dedicato alla principale ricchezza tradizionale dell’arcipelago), rivendicando riforme, una democratizzazione interna, la fine delle discriminazioni per sciiti e oppositori. Dopo alcuni timidi tentativi governativi di “normalizzare” la situazione attraverso elargizioni economiche alle famiglie e promesse di cambiamento, presto gli Al Khalifa hanno optato per la repressione violenta. In due anni di agitazioni, mai sopite, il bilancio è stato di una novantina di attivisti uccisi, circa duemila incarcerati (tra cui medici “colpevoli” di aver soccorso i manifestanti) e un Paese militarizzato, anche col supporto della vicina Arabia Saudita, timorosa di un “contagio” sul fronte delle rivendicazioni e dell’attivismo sciita, in uno Stato dove questa minoranza occupa proprio la regione più ricca di petrolio.

L’Occidente, da parte sua, si è dimostrato molto restio ad avallare una vera rivoluzione, col rischio di una destabilizzazione su scala regionale, a due passi dalla potenza “nemica” iraniana (sciita). «Paesi come gli Usa, la Francia o la Gran Bretagna parlano del rispetto dei diritti umani e delle minoranze ma poi chiudono gli occhi di fronte a palesi violazioni in zone del mondo dove hanno interessi economici o politici», ha accusato Maryam Al Khawaja. Ventisei anni soltanto, Maryam è già una protagonista di primo piano dell’opposizione bahrainita: un ruolo che l’ha costretta all’esilio in Danimarca, da dove coordina le attività del Bahrain Centre for Human Rights di cui ha assunto la presidenza al posto di Nabeel Rajab, attualmente in carcere.

Maryam alza la voce per far conoscere al mondo la situazione non solo del padre Habdulhadi e della sorella Zainab, a loro volta rinchiusi nelle galere del regime, ma anche quella di un intero Paese che rischia di chiudersi nell’assolutismo. Perché – va ripetendo la giovane Al Khawaja – la mobilitazione in atto in Bahrain non ha una base settaria ma di cittadinanza: non a caso «ci sono alcuni sciiti nelle file del governo, perché appoggiano la monarchia, e sunniti chiusi in carcere, perché hanno protestato».

Dopo quasi due anni di impasse, tuttavia, lo scorso febbraio si è finalmente aperto un dialogo tra il governo e i partiti dell’opposizione, in particolare la formazione islamica Al-Wifaq guidata dallo sceicco sciita Ali Salman e il partito socialista laico Waad. Dopo un avvio stentato, i colloqui hanno avuto un’improvvisa accelerazione, tanto che uno dei delegati delle opposizioni, Muneera Fakhro, ha dichiarato: «Per la prima volta mi sento ottimista sul futuro». Forse non causale la coincidenza di questa svolta con la visita di John Kerry in Qatar, durante la quale il segretario di Stato americano ha sottolineato il supporto statunitense al processo di riconciliazione nazionale.

Un segno di speranza molto concreto ha invece coinvolto la comunità cristiana del Bahrain – circa il 9 per cento della popolazione -, costituita per la gran parte da immigrati giunti nel Paese per motivi di lavoro. La notizia è stata comunicata con gioia dal vicario apostolico dell’Arabia del nord, monsignor Camillo Ballin: «Il Bahrain avrà presto una nuova chiesa!», ha fatto sapere il comboniano, a cui il governo ha consegnato il documento di proprietà di un terreno di 9.000 mq a Manama. Sulla terra, donata dal re, verrà presto edificata la Cattedrale, che costituirà la seconda chiesa cattolica del Paese e sarà dedicata a Nostra Signora d’Arabia. «Le nostre preghiere sono state esaudite», ha commentato monsignor Ballin, che da pochi mesi aveva spostato a Manama, da Kuwait City, la sede del Vicariato. Tra le ragioni del trasferimento proprio la difficoltà di avere accesso a terreni per edificare nuovi luoghi di culto, un limite più volte rimarcato dal vicario, la cui giurisdizione comprende appunto anche Kuwait, Qatar e Arabia Saudita, per un totale di circa due milioni di cattolici.

Il Bahrain rappresenta un contesto piuttosto aperto per i cristiani, provenienti soprattutto dall’Asia e dal Medio Oriente. Qui la fede può essere professata liberamente, sebbene con discrezione e all’interno dei limiti delle parrocchie. Per monsignor Ballin, la donazione rappresenta «un grande segno di apertura, che spero serva da modello per altri Paesi». Ciò che sperano in molti – cristiani e musulmani – è che il piccolo arcipelago del Golfo, terra di contraddizioni, si avvii con decisione sulla strada dei diritti. Per tutti, e senza ipocrisie.

Fonte: Bahrein: primavera mancata – MissiOnLine.org.

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