Brittany Maynard Diritto di suicidio o suicidio del diritto | Tempi.it

novembre 4, 2014Aldo Vitale

«Ammettere la legalizzazione del suicidio significa rivelare una totale incomprensione di fondo della natura del diritto»

brittany-maynard1«Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia»: tanto pensava Albert Camus ne Il Mito di Sisifo, con ciò espressamente esigendo l’abbandono di ogni prospettiva ideologica, cioè di carattere aprioristico, per l’adozione dello strumentario razionale tipico della filosofia ai fini della investigazione del suddetto fondamentale problema.

Soltanto in quest’ottica, dunque, ci si può accostare ai delicati temi biogiuridici in genere, a quello del suicidio assistito in particolare ed in specie al caso di Brittany Maynard, ragazza statunitense ventinovenne malata di cancro al cervello in stato terminale.

Secondo quanto hanno riportato le agenzie di stampa, la ragazza, lo scorso gennaio, avrebbe subito una diagnosi secondo cui le sue aspettative di vita non avrebbero superato i sei mesi a causa del diffuso ed inguaribile tumore al cervello registrato dalle analisi mediche, motivo per cui si sarebbe trasferita in Oregon in cui la vigenza del “Death With Dignity Act” le avrebbe consentito di morire, a seguito del consumo di farmaci letali legalmente prescritti da un medico, subito dopo il compleanno del marito lo scorso primo novembre, come puntualmente è avvenuto.

L’occasione si offre propizia per effettuare alcune brevi considerazioni.

Sebbene la questione possa coinvolgere differenti piani (come il punto di vista etico, giuridico, filosofico, storico, sociale, economico) e differenti problemi, appare più opportuno in questa sede focalizzare maggiormente l’attenzione su almeno due profili più eminenti: la infondabilità del suicidio (assistito o meno) su base etico-filosofica, cioè prettamente razionale, da un lato, e la natura e il ruolo del diritto dall’altro lato.

Gli aspetti da trattare sono lunghi ed articolati, ma, date le esigenze di spazio, si può subito riflettere sulla circostanza per cui il suicidio, assistito o meno, soprattutto nell’ambito del decorso di una patologia cronica e/o terminale è ben lungi dal rappresentare una manifestazione di libertà individuale del soggetto che se ne rende responsabile, e ciò per almeno due principali motivi.

In primo luogo: nella maggior parte dei casi i soggetti che richiedono il suicidio assistito, soprattutto se coinvolti in esperienze patologiche gravi e dolorose, sono soggetti che non sono in grado di valutare serenamente la situazione esistenziale in cui si trovano, proprio a causa dello stato di prostrazione psico-fisica in cui purtroppo giacciono.

In secondo luogo: sebbene, da parte dei più, si possa ritenere che l’atto suicidiario costituisca l’atto di auto-determinazione per eccellenza, cioè l’ambito applicativo apicale della libertà personale dell’individuo che lo mette in essere disponendo a proprio piacimento della propria vita e del proprio corpo (si pensi per esempio a quanto sentenziava lo Zarathustra di Nietzsche:« Io lodo qui la mia morte, la libera morte che mi viene perché io la voglio»), così non è, in quanto il più delle volte, come fattore logico-deduttivo posto a giustificazione dell’atto suicidiario medesimo si adduce proprio la sofferenza del suicida, causata dallo stato patologico in cui questi versa; insomma, il cortocircuito logico è palese poiché se l’atto suicidiario deve essere inteso, come i più pretendono, quale manifestazione della assoluta libertà dell’individuo svincolato da ogni condizionamento, non può all’un tempo ritenersi per ciò stesso determinato causalmente dallo stato patologico in cui il suicida viene a trovarsi; per converso, ogni stato patologico utilizzato per giustificare la presunta libertà insita in un atto suicidiario nega istantaneamente ed irreparabilmente allo stesso tempo proprio quella libertà che invece si pretende affermi.

Tuttavia, scandagliando più in profondità, ben altro viene alla luce.

Se infatti può esistere una vita non libera, quale appunto quella di colui che soggiace alla schiavitù di una tirannia, perfino quella del proprio corpo o di una patologia, riconoscendo sempre un obbligo generale di garantire il massimo della libertà a chiunque, occorre anche pur ammettere che non è possibile una libertà senza vita.

In altri termini: il diritto di libertà è sempre connesso e geneticamente collegato con il diritto alla vita; una libertà in antitesi con la vita non è vera libertà; è per questo, per esempio, che l’omicidio costituisce oggetto di sanzione in ogni epoca storica e trans-culturalmente. La vita, rectius, il diritto alla vita è il presupposto logico e cronologico di ogni altro diritto, per cui il suicidio non solo non è espressione di libertà, ma è una sua grottesca negazione, palesandosi quindi per ciò che è, cioè totalmente irrazionale ed illogico.

Non a caso uno dei maestri del pensiero razionale ed illuminista, Kant, così scrive in merito nelle sue Lezioni di etica: «Il suicidio può essere considerato sotto diversi profili […]. I difensori di esso sostengono che l’uomo è un agente libero […]. Per quel che riguarda il corpo egli ne può disporre i molti modi: per esempio facendosi incidere un ascesso o amputare un arto o trascurando una ferita; nei riguardi del corpo sta dunque a lui fare liberamente ciò che gli sembra utile e consigliabile: non dovrebbe egli dunque avere anche la facoltà di togliersi la vita, ove ciò gli apparisse come la cosa più vantaggiosa e raccomandabile? […]. Noi possiamo disporre del nostro corpo in vista della conservazione della nostra persona; chi però si toglie la vita non preserva con ciò la sua persona: egli dispone allora della sua persona e non del suo stato, cioè si priva della sua persona. Ciò è contrario al più alto dei doveri verso se stessi, perché viene soppressa la condizione di tutti gli altri doveri […]. Il suicidio non è abominevole e inammissibile perché Dio lo ha proibito, ma al contrario Dio lo ha proibito perché, degradando al di sotto dell’animalità la dignità intrinseca dell’uomo, è abominevole ».

Ancora: viene in rilievo qualcosa di ben più allarmante, cioè la concezione del tutto erronea ed equivoca circa la natura e il ruolo del diritto.

Ammettere la legalizzazione del suicidio, ammettere che il medico debba e possa somministrare sostanze venefiche ogni qual volta il paziente lo richieda, ammettere che la volontà individuale debba sempre e comunque prevalere su ogni altra istanza, perfino contro la vita stessa di chi manifesta tale volontà, significa rivelare una totale incomprensione di fondo della natura del diritto.

Il tema richiederebbe trattazione a se stante data la sua complessa articolazione, ma in questa sede ci si può limitare ad osservare che il diritto non può essere ridotto alla mera formalizzazione della volontà del singolo; se così fosse, infatti, il diritto coinciderebbe con questa volontà e la sua natura altro non sarebbe che pura volontà.

Il diritto, invece, è ben altro, e, proprio perché ricomprendente anche, ma non solo la volontà individuale, senza cioè appiattirsi su di essa, svolge il prezioso ed insostituibile ruolo di difesa dei più deboli, anche e soprattutto da quegli atti di volontà che in quanto tali trasgrediscano la retta ragione e le leggi di natura.

Il diritto, nel caso del suicidio, come precisano tra i tanti Aristotele ed Agostino, difende dalle aggressioni, anche da quelle che ciascuno arreca a se stesso.

Il diritto, ristretto alla mera ratificazione della volontà individuale, diventa pura certificazione, cioè una semplice e sterile copertura formale di tale volontà; il diritto così inteso, si dissolve, venendo in sostanza totalmente fagocitato dalla volontà; nota Sergio Cotta che «non è difficile capire che in tali casi il diritto è stato appunto usato come un mero strumento, facendo violenza alla sua essenza strutturale, essenza strutturale che si fonda sulla sua giustizia, cioè sulla sua natura relazionale, e non sul semplice dato volontaristico.

Più che all’esercizio del diritto al suicidio, si assiste insomma, ad un vero e proprio suicidio del diritto.

Sarebbe opportuno chiedersi allora se il suicidio sia effettivamente libero; se tale libertà sia davvero voluta; se tale volontà sia davvero giuridica; se tale diritto sia davvero giusto all’ombra di una rivendicata onnipotenza volontaristica che rende arbitrariamente disponibile tutto, perfino il sé.

In conclusione sembrano risuonare, allora, con rinnovata tragicità, le parole del quesito iniziale di Severino Boezio nella sua Consolazione della filosofia: «Vi è dunque qualcuno che ritenga che gli uomini possono tutto? Nessuno, a meno che non sia pazzo».

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