Come (non) far nascere Al Qaeda in Crimea

di Massimo Introvigne

A differenza di quella del 1853-1856, che durò due anni e tre mesi e fece mezzo milione di morti, la guerra di Crimea di Putin è durata ventiquattr’ore, e sono morte solo un paio di persone. È del tutto inverosimile che la diplomazia internazionale riporti la Crimea sotto il controllo di un’Ucraina indipendente da Mosca. Nessuno oggi in Occidente è disposto a morire per Sebastopoli. Gli inglesi nella guerra del XIX secolo per la Crimea pagarono un tributo di ventimila morti, con episodi famosi come la carica dei seicento di Balaklava cantata da Alfred Tennyson (1809-1892). Oggi, mentre i ragazzi inglesi continuano a studiare Tennyson, il governo della Gran Bretagna minaccia reazioni estreme all’invasione russa della Crimea: non il ritiro della squadra britannica dalle Paralimpiadi invernali di Sochi, cioè le olimpiadi riservate ai disabili – questo no, dopo tutto non bisogna esagerare – ma la rinuncia alla cerimonia di inaugurazione. Addirittura. La Germania si dissocia anche dalle modeste proteste di altri Paesi europei: gli affari con la Russia innanzitutto, e la Merkel ci ha spiegato diverse volte che i contribuenti tedeschi non sono disposti a pagare neppure un euro per l’Ucraina.

Se le cose stanno così – con l’America di Obama come al solito confusa, senza dimenticare che i politici che hanno preso il potere a Kiev hanno i loro scheletri nell’armadio e un passato non proprio immacolato – occorre farsene una ragione: la Crimea diventerà uno Stato indipendente satellite della Russia o si unirà alla Federazione Russa, magari con un referendum. Resta solo da vedere se, dopo la «ferma» reazione occidentale, Putin si fermerà alla Crimea, ripeterà la guerra-lampo nell’Ucraina orientale russofona o farà arrivare i blindati fino a Kiev.

È sempre pericoloso mettere in discussione le carte geografiche, ma è vero che la Crimea con l’Ucraina c’entra poco. Fu «regalata» all’Ucraina, di cui non aveva mai fatto parte nella sua storia, nel 1954. Una leggenda urbana russa vuole che Nikita Kruscev (1894-1971) abbia deciso la cervellotica integrazione della Crimea in quella che era allora la repubblica socialista sovietica dell’Ucraina una sera in cui era più ubriaco del solito. La verità è che nel 1954 in Ucraina c’erano ancora episodi di resistenza armata al regime sovietico, e Kruscev, come già aveva fatto Stalin, voleva far diminuire la percentuale di ucrainofoni nella Repubblica Ucraina immettendovi una Crimea composta in maggioranza di russofoni.

La Crimea del 1954 non era più la Crimea del 1917, né quella del 1783, quando fu conquistata dalla Russia zarista. Fino ad allora la Crimea era un pezzo di Mongolia in Europa: era abitata da mongoli, detti tatari, di religione musulmana e governata da discendenti diretti di Gengis Khan (1162-1227). L’Impero Russo, come faceva sempre nelle terre conquistate, vi favorì l’immigrazione di russi di religione ortodossa e anche d’immigrati europei. Arrivarono anche – soprattutto dalla Puglia – gli italiani di Crimea, in cerca di terre e lavoro. I tatari si sentirono discriminati a casa loro, e molti di loro emigrarono in Turchia. Nonostante questa politica, quando sopraggiunse la Rivoluzione sovietica i tatari musulmani in Crimea erano ancora in maggioranza: 35%, contro un 33% di russi.

Cercarono di approfittare della Rivoluzione per costituire uno Stato tataro indipendente, considerato dagli storici la prima democrazia nella storia del mondo islamico: ma durò solo un mese, dal dicembre 1917 al gennaio 1918, quando fu annessa dalla Russia bolscevica. I tatari, però, non desideravano diventare parte della Russia comunista, e svilupparono forme di resistenza sia passiva sia armata. La repressione sovietica fu terribile. Il primo olocausto dei tatari fu organizzato da Lenin (1870-1924) nel 1921, con modalità parallele al successivo terribile Holodomor in Ucraina: una carestia artificiale, con il cibo confiscato senza pietà in Crimea e spedito in Russia. Morirono centomila tatari: uomini, donne e bambini, più di un terzo della popolazione musulmana della Crimea. Una riedizione della carestia artificiale del 1921 fu organizzata da Stalin (1878-1953) nel 1932, con il risultato di ridurre la popolazione tatara in Crimea a metà di quella che era nel 1917. Queste vicende non giustificano, ma spiegano, il favore con cui una parte dei tatari accolse l’invasione nazista della Russia. Alcuni si arruolarono nella Legione Tatara, che combatté a fianco dei tedeschi.

Stalin rispose con quello che i tatari chiamano nella loro lingua Sürgünlik, uno dei tanti genocidi comunisti dimenticati del XX secolo. La mattina del 18 maggio 1944, 32.000 agenti della polizia politica NKVD entrarono in Crimea e arrestarono tutti i tatari, salvo pochi che riuscirono a scappare. Lo stesso giorno, i numerosi tatari di Crimea che avevano combattuto – alcuni meritando anche decorazioni – nell’Armata Rossa furono arrestati nei reparti militari di cui facevano parte. In totale, 240.000 tatari furono deportati in Uzbekistan, Kazakhistan e Siberia, andando a ingrossare le fila dei detenuti nell’immenso arcipelago GULag. Metà di loro morirono – giustiziati, di fame o di malattia – entro i primi tre anni dalla deportazione. Già che c’era, Stalin deportò in Kazakhstan anche gli italiani di Crimea, accusati di simpatie fasciste. Dei cinquemila italiani, l’ottanta per cento fu deportato: molti morirono, e oggi gli italiani di Crimea sono ridotti a meno di cinquecento.

Nel 1967 i tatari furono «perdonati» e riabilitati, ma solo negli anni 1980 ad alcuni di loro fu concesso di ritornare in Crimea. Con la perestrojka di Gorbaciov e la fine del comunismo, circa 250.000 tatari sono tornati in Crimea. Con ovvi problemi: nel frattempo le loro case e le loro terre erano state assegnate a russi, i quali dopo cinquant’anni non avevano alcuna intenzione di restituirle ai tatari.

I censimenti in Ucraina sono un atto politico, ed è possibile che la percentuale di tatari in Crimea sia artificialmente sottovalutata. È certo però che su circa due milioni di abitanti della Crimea i tatari sono in minoranza (fra il 10% e il 20%), mentre i russi sono in maggioranza (60%) e vi è pure una minoranza che parla ucraino.

Nel 2011, l’anno in cui sono stato Rappresentante dell’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) per la lotta al razzismo e alla discriminazione religiosa, ho condotto una visita ufficiale in Ucraina, e sono co-autore del rapporto OSCE su quel Paese. Dal rapporto risulta che i tatari di Crimea subivano diverse forme di discriminazione, dal rifiuto delle scuole di servire carne halal agli studenti musulmani all’uso sistematico di stereotipi negativi sulla stampa locale, fino al rifiuto da parte di aziende gestite da russi – e anche di amministrazioni pubbliche – di assumere tatari o di affittare loro case e negozi. Una parte dei tatari riteneva che le discriminazioni fossero più pronunciate da parte dei russi che non da parte degli ucraini, il che spiega perché molti tatari siano favorevoli a una Crimea ucraina, pur esistendo anche un piccolo partito tataro filo-russo.

La stampa russofona della Crimea, e anche quella russa, dipinge spesso i tatari come pericolosi fondamentalisti ed estremisti. Gli studi sociologici indipendenti presentano un quadro diverso. Prescindendo da vicende del XVIII o del XIX secolo, l’islam dei tatari nel XX secolo non è stato particolarmente estremista. Soltanto le discriminazioni degli anni 2000 hanno favorito l’arrivo in Crimea di movimenti radicali come Hizb ut-Tahrir, la cui consistenza peraltro non va sopravvalutata.

Ma questo non significa che non ci siano rischi. Ripetere continuamente che i tatari di Crimea sono fondamentalisti non è vero oggi, ma aiuta a farli diventare fondamentalisti domani: è la classica profezia che si auto-avvera. Il modo provocatorio in cui le truppe russe stanno già trattando i musulmani e gli slogan anti-islamici sentiti in piazza a Sebastopoli alimentano il fondamentalismo. Sui siti internazionali legati ad Al Qaeda si comincia a parlare di jihad in Crimea. I russi dovrebbero avere imparato in Cecenia che queste minacce non vanno sottovalutate. Nonostante una repressione spietata e anche efficace, il terrorismo ceceno è stato ancora capace di colpire duramente in Russia nel gennaio 2014. I musulmani tatari non vanno regalati all’estremismo e ad Al Qaeda, con conseguenze che sarebbero devastanti non solo per la Russia ma anche per l’Europa. Per evitare questo, occorre che i russi – e chi in Occidente è in grado di parlare con loro – superino la sindrome cecena, e sia avviato un severo piano di monitoraggio, già più volte richiesto dall’OSCE, che assicuri il rispetto dei diritti della minoranza islamica – che storicamente e culturalmente fu maggioranza – in Crimea.

Qualcuno obietterà che, dove sono in maggioranza, i musulmani spesso non rispettano le minoranze. È vero: ma delle due l’una. O la minoranza tatara in Crimea – non quattro gatti, ma un quarto di milione di persone – si sentirà rassicurata quanto al rispetto dei suoi diritti. Oppure i suoi giovani andranno a ingrossare le fila del radicalismo e del terrorismo islamico, in una penisola che è a meno di mille miglia in linea d’aria dall’Italia.

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