Come ti compro un figlio

di Olimpia Tarzia*

Il dibattito sull’utero in affitto in Italia sta facendosi sempre più spazio. Stiamo parlando della più obbrobriosa pratica di svilimento del corpo femminile e della sua fertilità per fini di lucro. Sul web stanno prolificando le organizzazioni che, dietro lauto pagamento, e con tanto di assistenza legale, offrono bambini su commissione attraverso la pratica dell’utero in affitto. Il processo di surrogazione viene volutamente frammentato, anche geograficamente, per ottenere il massimo dell’“anonimato genetico” e creare bambini senza storia né radici, siano esse genetiche o affettive, al fine di controllarlo meglio. Di fronte a questa vera e propria compravendita di figli, che permette persino la scelta della donatrice d’ovuli, una società che sia davvero civile, non può restare a guardare. Da questa consapevolezza è nata la volontà di costituire un Comitato per sensibilizzare l’opinione pubblica sui valori in gioco e mettere in campo tutte le azioni culturali, educative, politiche e legislative tese a contrastare la diffusione del fenomeno.

Credo, infatti, che una società che permette di sfruttare il corpo della donna e svilirne la dignità, considerandola un mero contenitore di un figlio altrui, che non sa più cosa sia la famiglia, che prevede la possibilità di abortire o il suicidio assistito, che non sa dire perché non si può acconsentire alle coppie omosessuali il riconoscimento giuridico e magari l’adozione di un figlio, è una società che non sa più da dove viene né verso dove vada. Occorre avviare tutte le opportune iniziative politiche per contrastare qualsiasi tentativo di legalizzare anche in Italia la pratica dell’utero in affitto e osteggiare tale attività nei Paesi dove il mercato della maternità su committenza è legale e già affermato, segnalando ogni abuso compiuto sulle donne e riaffermando il loro diritto a non essere considerate macchine produttrici di ovuli e ventri in affitto. Il Comitato, inoltre, ha lo scopo contrastare il business speculativo legato alla pratica dell’utero in affitto che ha raggiunto ormai un giro d’affari miliardario: soltanto in India si aggira sui 2,3 miliardi di dollari l’anno.

Inoltre, come ho accennato, attualmente in Italia la surrogazione di maternità costituisce una pratica medica illegale, ma per i cittadini italiani è legale ricondurre in Italia i figli e le figlie avuti attraverso questa pratica all’estero. Da qui il crescente interesse da parte di single e coppie, anche omosessuali, riguardo alla possibilità di recarsi all’estero per avere un figlio. Un vero e proprio “turismo procreativo” che sta prendendo piede soprattutto nei Paesi più poveri dove la pratica è legale e che spinge anche i medici italiani ad aprire studi all’estero. Il “carattere mercantile” di tali maternità, testimonia nettamente il tradimento dei diritti umani e in particolare di tutti quei bambini implicati in situazioni in cui vengono meno, in modo artificioso, quei diritti che la legislazione di tutto il mondo dichiara preminenti.

La madre surrogato, donna oggetto per bisogno, spesso per disperazione, si presta a portare in grembo i figli altrui. In India, a causa dell’estrema povertà, i giornali sono pieni di annunci di uteri in affitto. In crescita sono anche i contenziosi: un bimbo nato dall’utero in affitto può essere conteso tra chi lo ha voluto e chi ha accettato la gravidanza? Tra i primi casi in Italia, quello di Jessica, nata perché una coppia di coniugi, che non poteva avere figli, “affittò” l’utero di una donna algerina. Ottenne un milione al mese e una casa a Rapallo per la gravidanza. Ma, poco prima del parto, cambiò idea. Decise di tenersi la bambina. L’uomo la cacciò di casa e le notificò un atto di citazione al tribunale di Monza, chiedendo che gli venisse riconosciuto il diritto ad avere con sé la bambina. La domanda venne respinta. I giudici ritennero nullo il contratto per l’utero in affitto stabilendo che non si diventa figli per contratto e che una donna ha diritto di crescere la propria creatura. Non solo, il tribunale di Milano, con decreto del 27 giugno ’97, ammise invece l’azione di paternità avviata dalla minore nei confronti del padre biologico. Dopo la morte del padre, Jessica ottenne il riconoscimento di figlia a coronamento di una battaglia giudiziaria iniziata dalla madre algerina molti anni prima.

La pratica dell’utero in affitto può, dunque, portare alla nascita di annosi contenziosi e arrecare gravi disagi sociali e psicologici a tutti i soggetti coinvolti. A tal proposito, il Comitato si è posto l’obiettivo di svolgere anche un’opera di sensibilizzazione verso tale fenomeno per mettere a conoscenza l’opinione pubblica dei valori in gioco e dei rischi connessi. Desidero per questo esprimere il mio apprezzamento per quanto sta facendo la rivista “Notizie Pro Vita”, che ha dedicato il numero di ottobre interamente alla tragedia degli uteri in affitto e al disgustoso business legato al fenomeno, contribuendo alla diffusione di un pensiero che vuole porre di nuovo al centro la persona, con la sua incommensurabile dignità, con i suoi inviolabili diritti fondamentali. Assegnare a dei principi delle priorità non significa ragionare in modo monotematico: quei principi non negoziabili gettano luce anche su tutti gli altri che possono venire adeguatamente risolti solo se affrontati nel rispetto dei primi.

*Coordinatrice nazionale Comitato “Di mamme ce n’è una sola”

Fonte: Come ti compro un figlio.

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