Fuori dall’Europa, invece, la persecuzione ha superato da tempo gli strumenti culturali e amministrativi per colpire persone, luoghi di culto, abitazioni e persino cimiteri. La situazione più preoccupante da un punto di vista simbolico è forse proprio quella dei luoghi in cui il Signore ha mosso i passi illuminando la storia, dove tutto ha avuto inizio: nei luoghi che furono testimoni privilegiati dell’annuncio evangelico e della predicazione del primo collegio apostolico, il Cristianesimo rischia di fatto l’estinzione. Stretti in una morsa tra lo Stato d’Israele e la ripresa del fondamentalismo islamico-palestinese i cristiani di Terra Santa negli ultimi anni hanno visto scemare continuamente il loro peso politico. Nella città in cui è nato il Signore – Betlemm- oggi sono una minoranza in declino per i flussi migratori che vedono sempre più cristiani abbandonare la loro terra natale, devastata dalla povertà e dalla mancanza di occupazione, oltre che dalle precarie condizioni di sicurezza. Ma anche a Gerusalemme Ovest (la zona tradizionalmente “cattolica” di Gerusalemme in cui maggiore dovrebbe essere la loro presenza) i cristiani – ancor di più dopo la vittoria del partito islamista di Hamas – si avviano a essere una minoranza emarginata e guardata con sospetto. A Gerusalemme Est e in Cisgiordania sono invece già adesso vittime dell’espansione islamica. Negli ultimi decenni infatti l’area ha visto una crescente islizzazione. Ancora più drammatica è la situazione in quel lembo conteso che è la “striscia di Gaza”: qui esistono solo quattro chiese, periodicamente saccheggiate dai militanti di Hamas che in occasione dell’ultima vittoria alle elezioni hanno festeggiato profanando i luoghi di culto. Di poco migliore, ma non troppo, la situazione a Nazaret, dove il vescovo, mons. Giacinto-Boulos Marcuzzo negli ultimi anni era arrivato a chiedere protezione legale» per i cristiani. L’altemativa che si presenta oggi per fuggire da questa situazione è drammatica: professare la fede pubblicamente rischiando la morte oppure abbandonare la propria terra e fuggire in esilio. Chi vuol restare (secondo gli ultimi dati i cristiani rimasti in tutta la regione sarebbero non più di 150.000), infatti, lo fa conscio di andare incontro a rischi notevoli. Nell’ottobre 2007 fece scalpore l’uccisione con diversi colpi di pistola alla testa di un missionario statunitense, perpetrato da una frangia fondamentalista denominata “l’esercito dell’Islam” che si richiama all’organizzazione terroristica al-Qaeda e giudica la strategia di Hamas persino troppo moderata. D’altra parte più volte si sono rilevate aggressioni anche da parte di gruppi di ebrei ultraortodossi che in almeno tre occasioni solo nell’ultimo biennio hanno aggredito i religiosi francescani, tradizionali custodi locali dei luoghi santi. Ma dal 2000 ad oggi sono stati centinaia gli attacchi alle piccole comunità cristiane mediorientali. Quando non si registrano vittime si rilevano comunque violenze su larga scala: saccheggi e incendi di abitazioni, distruzione di negozi e degli eventuali segni pubblici della fede cristiana (soprattutto croci e statue della Vergine).
Peraltro non è solo la Terra Santa ma tutta la zona circostante il Medioriente a evidenziare vecchie e nuove violazioni della libertà religiosa, talora riconosciuta sulla carta. L’ Egitto ad esempio è considerato abitualmente come il Paese dell’area più sviluppato e filo-occidentale, la cui Costituzione ammette in linea di principio qualsiasi credo. I cristiani, la cui presenza in questa regione precede di ben sette secoli l’avvento dell’Islam e i cui primi martiri risalgono addirittura al tempo dell’imperatore romano Diocleziano, sarebbero il 14% della popolazione, tra gli otto e i nove milioni. Se si contano le altre comunità cristiane presenti nella regione (comprese Libia, Siria e Giordania) si osserva che oggi un cristiano d’Oriente su due è egiziano. Nonostante questi numeri i cristiani d’Egitto vivono da decenni una situazione di costante sudditanza, aggravatasi negli ultimi tempi. La Costituzione infatti, se da una parte sancisce formalmente la libertà religiosa, dall’altra stabilisce che comunque l’Islam è «la religione dello Stato» (ait 2) e gli stessi governanti non perdono occasione per ribadire che l’Egitto è uno «stato arabo e musulmano’. Dopo l’epoca di Nasser, tutto sommato tollerante, con Sadat e poi con Mubarak, la legislazione e la società egiziana hanno subito un processo di islamizzazione impressionante. A Sadat in particolare si deve la revisione della Costituzione per cui «i princìpi dell’Islam costituiscono la più importante fonte giuridica. Questi principi hanno effetti concreti: nella pubblica amministrazione, nell’esercito e nella vita politica di fatto i cristiani non sono ammessi, mentre l’obbligo di indicare sulla carta d’identità la religione rimanda a sinistri episodi di un passato che si pensava superato. Perfino l’insegnamento dell’arabo (lingua del Corano) nelle scuole può essere svolto solo da un musulmano. A questa situazione bisogna aggiungere le numerose esplosioni di violenza, tollerate dalle forze dell’ordine, che hanno costretto le autorità ecclesiali ad abbandonare Il Cairo per rifugiarsi nei monasteri dell’Alto Egitto. I giornali cristiani, denunciando l’inerzia (e a volte la connivenza) delle autorità civili nelle stragi, non hanno esitato a parlare di «un terrorismo di Stato che si aggiunge al terrorismo dei criminali». Questo clima intimidatorio in cui gli aggressori non vengono perseguiti mira a sottomettere (anzitutto psicologicamente) la combattiva minoranza cristiana: così accade che anche qui le donne cristiane si sentano obbligate a coprirsi il capo quando escono di casa per evitare di essere insultate e nei luoghi pubblici ormai molti cristiani durante il periodo penitenziale del ramadan, preferiscono evitare di mangiare o bere davanti a testimoni, per scongiurare conflitti. Chi si converte va incontro a persecuzioni e arresti, se non peggio. Nel 2003 fece scalpore il caso di una coppia musulmana che dopo essersi convertita al Cristianesimo chiese il cambiamento di religione sullo stato civile. Per tutta risposta, il rettore della più prestigiosa università religiosa del Paese, Al-Azhar, emise una fatava che li condanna a morte. L’ultimo episodio di violenza risale appena allo scorso Natale, quando a Nag Hammadi nove persone sono state uccise all’uscita dalla Messa di mezzanotte da un commando amnato di fondamentalisti. Interpellato sulla libertà religiosa un vescovo ha dichiarato senza mezzi termini: «Ognuno è libero di entrare nell’Islam, ma se ne può uscire soltanto in barella.
Nelle vicine regioni del Maghreb le cose non vanno meglio. In tutta l’Africa settentrionale (dalla Mauritania alla Libia) esiste un unico monastero maschile, curato da quei trappisti sopravvissuti all’orrenda strage di Tibhime (Algeria) che nel 1996 ha segnato il punto massimo di violenza anticristiana, con l’assassinio in massa di 50 persone tra cui un’intera comunità di monaci e il vescovo di Orano. Paradossalmente, si trattava di uomini internazionalmente stimati per i loro sforzi sul versante del dialogo tra Islam e Cristianesimo. Così l’Algeria, come pure il Marocco, sono diventate aree notevolmente a rischio per i cristiani. Le leggi locali vietano le conversioni e, comunque, come dimostra un recente episodio in cui le vittime sono due turisti francesi, basta essere trovati in possesso di libri o cd sul Cristianesimo per essere arrestati. In Marocco il regime ha optato deliberatamente per un Islam di stato giungendo a prendere provvedimenti contro gli stessi cittadini marocchini che non rispettano il ramadan. Non sorprende quindi che negli ultimi anni si siano parallelamente registrati puntuali arresti dei missionari che giungevano sul posto. Il carattere liberticida di queste misure è stato denunciato da diverse Ong impegnate in Marocco per la tutela dei diritti umani ma, finora, senza successo.
La popolazione cattolica in Algeria, invece, conta appena 5000 fedeli ma la loro quotidianità è ben peggiore di quella dei fratelli marocchini. Scorrendo i rapporti delle agenzie missionarie dal 2000 ad oggi emerge una persecuzione sistematica: dal sequestro di Bibbie alla dogana considerate «materiale propagandistico pericoloso», all’aggressione di studenti che frequentano scuole pubbliche fino all’espulsione dal Paese di cristiani stranieri colpevoli di «proselitismo», un’apposita categoria del codice penale algerino volutamente generica in modo da favorire la più ampia persecuzione. Con questa accusa sono stati infatti arrestati anche dei sacerdoti che conducevano una semplice preghiera, senza celebrare Messa. A essere colpita è dunque la preghiera cristiana in quanto tale che viene considerata alla stregua di un crimine e perseguita. L’anno scorso sei cristiani sono stati accusati di aver svolto delle riunioni di preghiera in una casa privata e hanno dovuto rendere conto di «esercizio illegale di culto». Analogamente, un’altra studentessa algerina convertita, Habiba Kouider, è stata arrestata per «pratica non autorizzata di un culto non musulmano». A fronte di questa Via Crucis, nel 2008 è intervenuta persino l’ONU che ha richiamato le autorità algerine lamentando violazioni delle libertà fondamentali. Ma nulla è mutato e il clima che si respira nel Paese è ben riassunto dal ministro in carica per gli affari religiosi che pubblicamente ha dichiarato: «Per me l’evangelizzazione equivale al terrorismo». L’obiettivo dei poveri missionari sarebbe dunque quello di destabilizzare il regime algerino e alcuni sono stati accusati persino di attentare alla sicurezza dello Stato. Sembra impossibile che questa stessa tema conobbe la predicazione entusiastica di S. Agostino e la nascita fiorente della Chiesa primitiva quando l’Impero Romano venerava ancora il paganesimo, eppure anche questa è storia.
La questione dei luoghi di culto è oggetto di diatriba anche in Tunisia, dove la minoranza cristiana ha perso quasi tutte le chiese che un tempo ricordavano in modo indelebile le tracce di una fede trasmessa per secoli. La decolonizzazione infatti qui è coincisa con una presenza massiccia dei poteri pubblici in ogni ambito della vita sociale e l’Islam è diventata religione di Stato (a esso deve necessariamente appartenere il presidente della repubblica). Le chiese sono state trasformate così in moschee mentre la storica cattedrale di Cartagine, sconsacrata al momento della Dichiarazione d’Indipendenza, è diventata un museo.
Il Libano è stato tradizionalmente il Paese più sicuro per i cristiani e un modello di convivenza apprezzato da Giovanni Paolo II che vedeva in esso una speranza per le vessate minoranze cristiane dell’area. Oggi, dopo due guerre sanguinose che negli ultimi anni hanno diviso il Paese in due, la popolazione cristiana che un tempo sfiorava la maggioranza è scesa al 30%. Le guerre degli ultimi anni hanno fatto del Paese dei cedri uno Stato a sovranità limitata, con l’ombra della vicina Siria che si estende sempre più sul Parlamento di Beirut. Presi anche loro in una spirale di violenza e vendette tra Israele e Hamas, i cristiani libanesi negli anni sono stati torturati e decapitati. Si sono registrate anche lapidazioni di sacerdoti che continuavano a esercitare il proprio ministero, fino a vere e proprie crocifissioni e roghi di persone vive.
Delicatissima è poi la situazione in Turchab, il Paese sul Bosforo con alle spalle una secolare storia di aggressione all’Europa e che pure, paradossalmente, rischia di entrare proprio nell’Unione Europea dalla porta principale, con un formale nihil obstat della tecnocrazia laicista del Vecchio Continente. La stessa Turchia si dichiara ufficialmente laica ma di fatto pratica una tacita discriminazione verso tutti i non musulmani che vengono esclusi dai posti di responsabilità nella pubblica amministrazione, sia a livello nazionale che a livello locale. Anche qui vige l’obbligo della menzione della religione sulla carta d’identità con effetti pratici prevedibili: i pochi cristiani di fatto sono considerati come cittadini di seconda classe. Similmente, resta valido il discorso fatto per gran parte dei Paesi sul Mediterraneo, un tempo terre cristianissime: dopo l’arrivo dell’Islam però, non c’è rimasta nemmeno una croce. Dire che ad Istanbul vi sono più sacerdoti che parrocchie non è una battuta ma la constatazione di una triste realtà. Perfino nella capitale, Ankara, dove vivono oltre 2.000 cristiani, non esistono luoghi di culto. Gli unici ammessi sono le cappelline (appena quattro) presenti nelle ambasciate straniere che, in quanto tali, godono dell’extraterritorialità. E questo è tutto. Nel Paese che vide la predicazione di San Paolo il Vangelo rischia di essere seppellito per sempre.
Un ultimo cenno anche all’Iraq, che dopo le due guerre del Golfo è diventata una terra in cui i cristiani (che pure sono nativi di quei luoghi) sono guardati con sospetto. Dal 2004 sono state prese di mira più volte le chiese di Mossul, Kirkuk, Baghdad. Anche nella capitale le donne cristiane subiscono le minacce della violenza che dilania il Paese: se non vogliono essere cosparse di vetriolo è bene che escano velate, al modo delle islamiche. Non si contano i sacerdoti e i vescovi uccisi in questi anni. L’ultimo, l’arcivescovo caldeo di Mossul, mons. Paulos Faraj Rahho è stato assassinato il 13 marzo 2008.
Non citiamo poi neanche i veri e propri totalitarismi islamici in cui semplicemente non esiste la possibilità di dirsi non musulmani, sempre che si voglia restare vivi. È il caso dell’Iran (dove le conversioni a Cristo sono punite con la pena di morte), dell’Arabia Saudita, del Pakistan (dove una minima critica pubblica al profeta Maometto porta alla pena capitale), dell’Afghanistan post-talebano in cui chi si converte rischia il linciaggio. «Bisogna essere pazzi per essere cristiani in questi Paesi!», hanno affermato più volte gli osservatori intemazionali interpellati sulla situazione.
Alla luce di questi dati il fronte islamico è sicuramente il più preoccupante nel panorama delle persecuzioni anticristiane degli ultimi anni. Ma non è l’unico. Esiste anche un fronte asiatico che vede la persecuzione delle maggioranze induiste e buddiste verso le minoranze cristiane. È quanto avviene in India, Sri Lanka, Nepal, Mongolia e Myanmar (ex Birmania). Soprattutto in India i cristiani in molti Stati vivono una situazione di aperta ghettizzazione: in Orissa ad esempio non possono neanche entrare in alcuni alberghi e negozi, una situazione che ricorda sinistramente quella degli ebrei nel Terzo Reich ma senza destare l’indignazione di alcuno nella comunità internazionale. L’elenco dei soprusi denunciati dalle Ong per la tutela dei diritti umani è lunghissimo: si va dall’obbligo imposto agli allievi delle scuole cristiane di osservare le festività indù alle numerose leggi arti-conversione che puniscono con il carcere chiunque proponga il Vangelo ad un indiano. In altri Stati invece il battesimo cristiano è considerato alla stregua di un crimine e come tale perseguito. La situazione è ulteriormente peggiorata dal 2003, anno in cui sale al governo il BJP, un partito ultranazionalista che lega la difesa dell’identità nazionale con l’induismo alimentando intolleranza verso ogni altra confessione religiosa. Da allora più volte le comunità cristiane sono state prese di mira, attaccate (alcuni dati parlano di 230 attacchi complessivi), e infine distrutte fino ad arrivare a veri e propri pogrom con roghi di cristiani vivi. Le vittime, di cui non si conosce il numero esatto, sarebbero centinaia. Nel 2007 tre giorni di attacchi violenti hanno raso al suolo praticamente tutto ciò che la chiesa ha costruito nell’arco di un secolo. La parola d’ordine allora, come oggi è sempre la stessa: “Convertitevi all’induismo, se no sarete uccisi”. A questa situazione va aggiunta quella, delicatissima, dei cd. dalit cristiani: cioè degli “intoccabili” del sistema indiano delle caste. Essi infatti patiscono una doppia discriminazione: in quanto dalit, ovvero in quanto caste inferiori, prive di diritti all’interno della società indiana, e in più in quanto cristiani, minoranza delle minoranze. Si tratta quindi di una doppia discriminazione: un vero e proprio apartheid del XXI secolo in cui i cristiani vengono trattati, e non metaforicamente, peggio delle bestie, perché alcune bestie, come mucche e scimmie, sono considerate sacre della cultura indù.
Analoga la situazione in Sri Lanka, dove è la maggioranza buddista (solitamente dipinta come pacifica) a perseguitare la minoranza cristiana. Anche qui si elevano chiese bruciate, manifestazioni di fanatismo volte a impedire ogni attività pubblica dei cristiani, distruzione del crocifisso ovunque si trovi. È una situazione che contrasta con la tradizionale immagine di tolleranza legata al buddismo. Uno dei vescovi locali, mors. Franck Marcus Fernando l’ha descritta così: « I missionari buddisti godono della più completa libertà di predicazione e diffondono il buddismo in altri paesi ma tornati nello Sri Lanka la situazione è un’altra». Rivolgendosi espressamente a questi ha aggiunto: «Voi inviate missionari alfestero perpredicare la tolleranza ma una volta tornati a casa, bruciate le chiese, scrivete leggi [anticonversione, ndr] e gettate in prigione i cristiani».
Esistono poi realtà particolarissime dove gli scontri tribali si legano a un crescente processo di islamizzazione che mira a estirpare gli eventuali «residui» cristiani: è il caso del Sudan, già teatro di una persecuzione senza precedenti tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta del secolo scorso che ha fatto più di due milioni di vittime ricordando nei numeri un altro genocidio “dimenticato” con cui si era aperto il secolo: quello dei cristiani armeni. Oppure della Nigeria, dove dal 2004 ad oggi sono state uccise più di mille persone (tra sacerdoti, religiosi e laici) e distrutte più di 200 chiese.
E resta ancora la terribile persecuzione comunista, che riemerge: Cina, Vietnam, Corea del Nord, Nepal, Cuba, Venezuela, Bolivia. La situazione più dura si registra proprio in Cina dove resistono ancora dei campi di concentramento: i cd. laogai, in cui i dissidenti del regime vengono rieducati al “credo politico” tramite il lavoro coatto e un pervasivo “lavaggio del cervello”. E, di nuovo, arresti e scomparse di vescovi (oltre 40), sacerdoti e laici, controllo dello Stato sull’attività pastorale, divieto di pubblicazioni cattoliche. Ma anche in Vietnam e Corea del Nord non è lecito professarsi pubblicamente cristiani e lo Stato non tollera in alcun modo una dimensione religiosa nella ferrea organizzazione della società. A oltre duemila anni di distanza le parole del Vangelo ricordano all’Europa nichilista che la Fede si difende con il sangue, che il tempo dei martiri non è finito e che come «hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi» (GA 5, 20). (Dalla rivista: “Lepanto”)
Fonte: http://www.preghiereagesuemaria.it/sala/cristianofobia%20la%20nuova%20persecuzione%20mondioale.htm