Cristianofobia: la nuova persecuzione mondiale

Dopo il crollo del Muro di Berlino e la fine del­l’URSS, l’Occidente cristiano guardava con spe­ranza al futuro. Ma la storia non segue un cor­so lineare e così dopo “l’età delle ideologie” sono emer­si nuovi fronti con un preoccupante tratto comune: l’an­ti-cristianesimo, ovvero la sistematica caccia ai cristia­ni in quanto tali, per il semplice fatto di essere cristia­ni. Da allora infatti, e con ancora più intensità dall’ini­zio del secolo, il mondo ha visto la diffusione di una per­secuzione senza precedenti nei confronti dei cristiani di ogni angolo del globo, Europa compresa. Anche nel Vec­chio Continente infatti, le discriminazioni – pur non dan­do luogo (per ora) a casi di violenza fisica – hanno tro­vato terreno fertile per via amministrativa e culturale. Nel primo caso l’attacco alla presenza del Crocifisso nei luoghi pubblici (originato da una vicenda italiana) ri­schia di cancellare definitivamente la dimensione pub­blica del patrimonio cristiano dell’Europa, già umilia­to con la negazione delle sue radici nel documento fon­dativo dell’Unione Europea. Nel secondo caso, inve­ce, il moltiplicarsi di film, libri, giornali, siti intemet fino a sfociare in vere e proprie campagne di chiara marca anti-cristiana rappresenta (almeno nelle dimensioni) un fenomeno nuovo che potrebbe rivelarsi persino più pe­ricoloso del primo in quanto alimentatore di quella sfe­ra di sentimenti e idee che agendo sulle leve emotive del corpo sociale riescono a penetrare direttamente nei cuori delle persone modificandone convincimenti pro­fondi e senso morale.

Fuori dall’Europa, invece, la persecuzione ha su­perato da tempo gli strumenti culturali e amministra­tivi per colpire persone, luoghi di culto, abitazioni e per­sino cimiteri. La situazione più preoccupante da un pun­to di vista simbolico è forse proprio quella dei luoghi in cui il Signore ha mosso i passi illuminando la storia, dove tutto ha avuto inizio: nei luoghi che furono testi­moni privilegiati dell’annuncio evangelico e della predicazione del primo collegio apostolico, il Cristia­nesimo rischia di fatto l’estinzione. Stretti in una mor­sa tra lo Stato d’Israele e la ripresa del fondamentali­smo islamico-palestinese i cristiani di Terra Santa ne­gli ultimi anni hanno visto scemare continuamente il loro peso politico. Nella città in cui è nato il Signore – Be­tlemm- oggi sono una minoranza in declino per i flus­si migratori che vedono sempre più cristiani abbando­nare la loro terra natale, devastata dalla povertà e dal­la mancanza di occupazione, oltre che dalle precarie con­dizioni di sicurezza. Ma anche a Gerusalemme Ovest (la zona tradizionalmente “cattolica” di Gerusalemme in cui maggiore dovrebbe essere la loro presenza) i cri­stiani – ancor di più dopo la vittoria del partito islami­sta di Hamas – si avviano a essere una minoranza emar­ginata e guardata con sospetto. A Gerusalemme Est e in Cisgiordania sono invece già adesso vittime dell’espan­sione islamica. Negli ultimi decenni infatti l’area ha vi­sto una crescente islizzazione. Ancora più dramma­tica è la situazione in quel lembo conteso che è la “stri­scia di Gaza”: qui esistono solo quattro chiese, perio­dicamente saccheggiate dai militanti di Hamas che in occasione dell’ultima vittoria alle elezioni hanno festeg­giato profanando i luoghi di culto. Di poco migliore, ma non troppo, la situazione a Nazaret, dove il vescovo, mons. Giacinto-Boulos Marcuzzo negli ultimi anni era arrivato a chiedere protezione legale» per i cristiani. L’altemativa che si presenta oggi per fuggire da que­sta situazione è drammatica: professare la fede pubbli­camente rischiando la morte oppure abbandonare la pro­pria terra e fuggire in esilio. Chi vuol restare (secondo gli ultimi dati i cristiani rimasti in tutta la regione sareb­bero non più di 150.000), infatti, lo fa conscio di anda­re incontro a rischi notevoli. Nell’ottobre 2007 fece scal­pore l’uccisione con diversi colpi di pistola alla testa di un missionario statunitense, perpetrato da una frangia fondamentalista denominata “l’esercito dell’Islam” che si richiama all’organizzazione terroristica al-Qae­da e giudica la strategia di Hamas persino troppo mo­derata. D’altra parte più volte si sono rilevate aggres­sioni anche da parte di gruppi di ebrei ultraortodossi che in almeno tre occasioni solo nell’ultimo biennio han­no aggredito i religiosi francescani, tradizionali custo­di locali dei luoghi santi. Ma dal 2000 ad oggi sono sta­ti centinaia gli attacchi alle piccole comunità cristiane mediorientali. Quando non si registrano vittime si rile­vano comunque violenze su larga scala: saccheggi e in­cendi di abitazioni, distruzione di negozi e degli even­tuali segni pubblici della fede cristiana (soprattutto cro­ci e statue della Vergine).

Peraltro non è solo la Terra Santa ma tutta la zona circostante il Medioriente a evidenziare vecchie e nuo­ve violazioni della libertà religiosa, talora riconosciuta sulla carta. L’ Egitto ad esempio è considerato abitual­mente come il Paese dell’area più sviluppato e filo-oc­cidentale, la cui Costituzione ammette in linea di prin­cipio qualsiasi credo. I cristiani, la cui presenza in que­sta regione precede di ben sette secoli l’avvento del­l’Islam e i cui primi martiri risalgono addirittura al tem­po dell’imperatore romano Diocleziano, sarebbero il 14% della popolazione, tra gli otto e i nove milioni. Se si con­tano le altre comunità cristiane presenti nella regione (comprese Libia, Siria e Giordania) si osserva che oggi un cristiano d’Oriente su due è egiziano. Nonostante que­sti numeri i cristiani d’Egitto vivono da decenni una si­tuazione di costante sudditanza, aggravatasi negli ulti­mi tempi. La Costituzione infatti, se da una parte san­cisce formalmente la libertà religiosa, dall’altra stabili­sce che comunque l’Islam è «la religione dello Stato» (ait 2) e gli stessi governanti non perdono occasione per ribadire che l’Egitto è uno «stato arabo e musulmano’. Dopo l’epoca di Nasser, tutto sommato tollerante, con Sadat e poi con Mubarak, la legislazione e la società egi­ziana hanno subito un processo di islamizzazione im­pressionante. A Sadat in particolare si deve la revisio­ne della Costituzione per cui «i princìpi dell’Islam co­stituiscono la più importante fonte giuridica. Questi prin­cipi hanno effetti concreti: nella pubblica amministra­zione, nell’esercito e nella vita politica di fatto i cristia­ni non sono ammessi, mentre l’obbligo di indicare sul­la carta d’identità la religione rimanda a sinistri episo­di di un passato che si pensava superato. Perfino l’in­segnamento dell’arabo (lingua del Corano) nelle scuo­le può essere svolto solo da un musulmano. A questa si­tuazione bisogna aggiungere le numerose esplosioni di violenza, tollerate dalle forze dell’ordine, che hanno co­stretto le autorità ecclesiali ad abbandonare Il Cairo per rifugiarsi nei monasteri dell’Alto Egitto. I giornali cri­stiani, denunciando l’inerzia (e a volte la connivenza) delle autorità civili nelle stragi, non hanno esitato a par­lare di «un terrorismo di Stato che si aggiunge al ter­rorismo dei criminali». Questo clima intimidatorio in cui gli aggressori non vengono perseguiti mira a sotto­mettere (anzitutto psicologicamente) la combattiva minoranza cristiana: così accade che anche qui le don­ne cristiane si sentano obbligate a coprirsi il capo quan­do escono di casa per evitare di essere insultate e nei luo­ghi pubblici ormai molti cristiani durante il periodo pe­nitenziale del ramadan, preferiscono evitare di mangia­re o bere davanti a testimoni, per scongiurare conflitti. Chi si converte va incontro a persecuzioni e arresti, se non peggio. Nel 2003 fece scalpore il caso di una cop­pia musulmana che dopo essersi convertita al Cristia­nesimo chiese il cambiamento di religione sullo stato ci­vile. Per tutta risposta, il rettore della più prestigiosa uni­versità religiosa del Paese, Al-Azhar, emise una fatava che li condanna a morte. L’ultimo episodio di violenza risale appena allo scorso Natale, quando a Nag Ham­madi nove persone sono state uccise all’uscita dalla Mes­sa di mezzanotte da un commando amnato di fondamen­talisti. Interpellato sulla libertà religiosa un vescovo ha dichiarato senza mezzi termini: «Ognuno è libero di en­trare nell’Islam, ma se ne può uscire soltanto in barel­la.

Nelle vicine regioni del Maghreb le cose non van­no meglio. In tutta l’Africa settentrionale (dalla Mau­ritania alla Libia) esiste un unico monastero maschile, curato da quei trappisti sopravvissuti all’orrenda strage di Tibhime (Algeria) che nel 1996 ha segnato il punto massimo di violenza anticristiana, con l’assassinio in mas­sa di 50 persone tra cui un’intera comunità di monaci e il vescovo di Orano. Paradossalmente, si trattava di uo­mini internazionalmente stimati per i loro sforzi sul ver­sante del dialogo tra Islam e Cristianesimo. Così l’Al­geria, come pure il Marocco, sono diventate aree note­volmente a rischio per i cristiani. Le leggi locali vieta­no le conversioni e, comunque, come dimostra un re­cente episodio in cui le vittime sono due turisti france­si, basta essere trovati in possesso di libri o cd sul Cri­stianesimo per essere arrestati. In Marocco il regime ha optato deliberatamente per un Islam di stato giungen­do a prendere provvedimenti contro gli stessi cittadini marocchini che non rispettano il ramadan. Non sorpren­de quindi che negli ultimi anni si siano parallelamente registrati puntuali arresti dei missionari che giungeva­no sul posto. Il carattere liberticida di queste misure è stato denunciato da diverse Ong impegnate in Maroc­co per la tutela dei diritti umani ma, finora, senza suc­cesso.

La popolazione cattolica in Algeria, invece, conta appena 5000 fedeli ma la loro quotidianità è ben peg­giore di quella dei fratelli marocchini. Scorrendo i rap­porti delle agenzie missionarie dal 2000 ad oggi emer­ge una persecuzione sistematica: dal sequestro di Bib­bie alla dogana considerate «materiale propagandisti­co pericoloso», all’aggressione di studenti che frequen­tano scuole pubbliche fino all’espulsione dal Paese di cristiani stranieri colpevoli di «proselitismo», un’appo­sita categoria del codice penale algerino volutamente ge­nerica in modo da favorire la più ampia persecuzione. Con questa accusa sono stati infatti arrestati anche dei sacerdoti che conducevano una semplice preghiera, sen­za celebrare Messa. A essere colpita è dunque la preghie­ra cristiana in quanto tale che viene considerata alla stre­gua di un crimine e perseguita. L’anno scorso sei cristia­ni sono stati accusati di aver svolto delle riunioni di pre­ghiera in una casa privata e hanno dovuto rendere conto di «esercizio illegale di culto». Analogamente, un’al­tra studentessa algerina convertita, Habiba Kouider, è stata arrestata per «pratica non autorizzata di un culto non musulmano». A fronte di questa Via Crucis, nel 2008 è intervenuta persino l’ONU che ha richiamato le au­torità algerine lamentando violazioni delle libertà fon­damentali. Ma nulla è mutato e il clima che si respira nel Paese è ben riassunto dal ministro in carica per gli affari religiosi che pubblicamente ha dichiarato: «Per me l’evangelizzazione equivale al terrorismo». L’obietti­vo dei poveri missionari sarebbe dunque quello di de­stabilizzare il regime algerino e alcuni sono stati accu­sati persino di attentare alla sicurezza dello Stato. Sembra impossibile che questa stessa tema conobbe la predicazione entusiastica di S. Agostino e la nascita fio­rente della Chiesa primitiva quando l’Impero Romano venerava ancora il paganesimo, eppure anche questa è storia.

La questione dei luoghi di culto è oggetto di diatri­ba anche in Tunisia, dove la minoranza cristiana ha per­so quasi tutte le chiese che un tempo ricordavano in modo indelebile le tracce di una fede trasmessa per secoli. La decolonizzazione infatti qui è coincisa con una presen­za massiccia dei poteri pubblici in ogni ambito della vita sociale e l’Islam è diventata religione di Stato (a esso deve necessariamente appartenere il presidente della repub­blica). Le chiese sono state trasformate così in moschee mentre la storica cattedrale di Cartagine, sconsacrata al momento della Dichiarazione d’Indipendenza, è diven­tata un museo.

Il Libano è stato tradizionalmente il Paese più sicu­ro per i cristiani e un modello di convivenza apprezza­to da Giovanni Paolo II che vedeva in esso una speran­za per le vessate minoranze cristiane dell’area. Oggi, dopo due guerre sanguinose che negli ultimi anni hanno di­viso il Paese in due, la popolazione cristiana che un tem­po sfiorava la maggioranza è scesa al 30%. Le guerre degli ultimi anni hanno fatto del Paese dei cedri uno Sta­to a sovranità limitata, con l’ombra della vicina Siria che si estende sempre più sul Parlamento di Beirut. Presi an­che loro in una spirale di violenza e vendette tra Israe­le e Hamas, i cristiani libanesi negli anni sono stati tor­turati e decapitati. Si sono registrate anche lapidazioni di sacerdoti che continuavano a esercitare il proprio mi­nistero, fino a vere e proprie crocifissioni e roghi di per­sone vive.

Delicatissima è poi la situazione in Turchab, il Pae­se sul Bosforo con alle spalle una secolare storia di ag­gressione all’Europa e che pure, paradossalmente, rischia di entrare proprio nell’Unione Europea dalla porta prin­cipale, con un formale nihil obstat della tecnocrazia lai­cista del Vecchio Continente. La stessa Turchia si dichia­ra ufficialmente laica ma di fatto pratica una tacita di­scriminazione verso tutti i non musulmani che vengo­no esclusi dai posti di responsabilità nella pubblica am­ministrazione, sia a livello nazionale che a livello loca­le. Anche qui vige l’obbligo della menzione della reli­gione sulla carta d’identità con effetti pratici prevedibi­li: i pochi cristiani di fatto sono considerati come citta­dini di seconda classe. Similmente, resta valido il discor­so fatto per gran parte dei Paesi sul Mediterraneo, un tem­po terre cristianissime: dopo l’arrivo dell’Islam però, non c’è rimasta nemmeno una croce. Dire che ad Istanbul vi sono più sacerdoti che parrocchie non è una battuta ma la constatazione di una triste realtà. Perfino nella ca­pitale, Ankara, dove vivono oltre 2.000 cristiani, non esi­stono luoghi di culto. Gli unici ammessi sono le cappel­line (appena quattro) presenti nelle ambasciate stranie­re che, in quanto tali, godono dell’extraterritorialità. E questo è tutto. Nel Paese che vide la predicazione di San Paolo il Vangelo rischia di essere seppellito per sempre.

Un ultimo cenno anche all’Iraq, che dopo le due guer­re del Golfo è diventata una terra in cui i cristiani (che pure sono nativi di quei luoghi) sono guardati con so­spetto. Dal 2004 sono state prese di mira più volte le chie­se di Mossul, Kirkuk, Baghdad. Anche nella capitale le donne cristiane subiscono le minacce della violenza che dilania il Paese: se non vogliono essere cosparse di ve­triolo è bene che escano velate, al modo delle islamiche. Non si contano i sacerdoti e i vescovi uccisi in questi anni. L’ultimo, l’arcivescovo caldeo di Mossul, mons. Pau­los Faraj Rahho è stato assassinato il 13 marzo 2008.

Non citiamo poi neanche i veri e propri totalitarismi islamici in cui semplicemente non esiste la possibilità di dirsi non musulmani, sempre che si voglia restare vivi. È il caso dell’Iran (dove le conversioni a Cristo sono pu­nite con la pena di morte), dell’Arabia Saudita, del Pa­kistan (dove una minima critica pubblica al profeta Mao­metto porta alla pena capitale), dell’Afghanistan post-­talebano in cui chi si converte rischia il linciaggio. «Bi­sogna essere pazzi per essere cristiani in questi Paesi!», hanno affermato più volte gli osservatori intemaziona­li interpellati sulla situazione.

Alla luce di questi dati il fronte islamico è sicuramen­te il più preoccupante nel panorama delle persecuzioni anticristiane degli ultimi anni. Ma non è l’unico. Esiste anche un fronte asiatico che vede la persecuzione del­le maggioranze induiste e buddiste verso le minoranze cristiane. È quanto avviene in India, Sri Lanka, Nepal, Mongolia e Myanmar (ex Birmania). Soprattutto in In­dia i cristiani in molti Stati vivono una situazione di aper­ta ghettizzazione: in Orissa ad esempio non possono ne­anche entrare in alcuni alberghi e negozi, una situazio­ne che ricorda sinistramente quella degli ebrei nel Terzo Reich ma senza destare l’indignazione di alcuno nel­la comunità internazionale. L’elenco dei soprusi denun­ciati dalle Ong per la tutela dei diritti umani è lunghis­simo: si va dall’obbligo imposto agli allievi delle scuole cristiane di osservare le festività indù alle nume­rose leggi arti-conversione che puniscono con il carce­re chiunque proponga il Vangelo ad un indiano. In al­tri Stati invece il battesimo cristiano è considerato alla stregua di un crimine e come tale perseguito. La situa­zione è ulteriormente peggiorata dal 2003, anno in cui sale al governo il BJP, un partito ultranazionalista che lega la difesa dell’identità nazionale con l’induismo ali­mentando intolleranza verso ogni altra confessione re­ligiosa. Da allora più volte le comunità cristiane sono state prese di mira, attaccate (alcuni dati parlano di 230 attacchi complessivi), e infine distrutte fino ad arriva­re a veri e propri pogrom con roghi di cristiani vivi. Le vittime, di cui non si conosce il numero esatto, sareb­bero centinaia. Nel 2007 tre giorni di attacchi violenti hanno raso al suolo praticamente tutto ciò che la chie­sa ha costruito nell’arco di un secolo. La parola d’ordi­ne allora, come oggi è sempre la stessa: “Convertitevi all’induismo, se no sarete uccisi”. A questa situazione va aggiunta quella, delicatissima, dei cd. dalit cristiani: cioè degli “intoccabili” del sistema indiano delle caste. Essi infatti patiscono una doppia discriminazione: in quanto dalit, ovvero in quanto caste inferiori, prive di diritti all’interno della società indiana, e in più in quan­to cristiani, minoranza delle minoranze. Si tratta quin­di di una doppia discriminazione: un vero e proprio apar­theid del XXI secolo in cui i cristiani vengono trattati, e non metaforicamente, peggio delle bestie, perché al­cune bestie, come mucche e scimmie, sono considera­te sacre della cultura indù.

Analoga la situazione in Sri Lanka, dove è la mag­gioranza buddista (solitamente dipinta come pacifica) a perseguitare la minoranza cristiana. Anche qui si e­levano chiese bruciate, manifestazioni di fanatismo vol­te a impedire ogni attività pubblica dei cristiani, distru­zione del crocifisso ovunque si trovi. È una situazione che contrasta con la tradizionale immagine di tolleran­za legata al buddismo. Uno dei vescovi locali, mors. Franck Marcus Fernando l’ha descritta così: « I missio­nari buddisti godono della più completa libertà di pre­dicazione e diffondono il buddismo in altri paesi ma tor­nati nello Sri Lanka la situazione è un’altra». Rivolgen­dosi espressamente a questi ha aggiunto: «Voi inviate mis­sionari alfestero perpredicare la tolleranza ma una vol­ta tornati a casa, bruciate le chiese, scrivete leggi [anti­conversione, ndr] e gettate in prigione i cristiani».

Esistono poi realtà particolarissime dove gli scon­tri tribali si legano a un crescente processo di islamiz­zazione che mira a estirpare gli eventuali «residui» cri­stiani: è il caso del Sudan, già teatro di una persecuzio­ne senza precedenti tra gli anni Ottanta e gli anni No­vanta del secolo scorso che ha fatto più di due milioni di vittime ricordando nei numeri un altro genocidio “di­menticato” con cui si era aperto il secolo: quello dei cri­stiani armeni. Oppure della Nigeria, dove dal 2004 ad oggi sono state uccise più di mille persone (tra sacerdo­ti, religiosi e laici) e distrutte più di 200 chiese.

E resta ancora la terribile persecuzione comunista, che riemerge: Cina, Vietnam, Corea del Nord, Nepal, Cuba, Venezuela, Bolivia. La situazione più dura si re­gistra proprio in Cina dove resistono ancora dei campi di concentramento: i cd. laogai, in cui i dissidenti del regime vengono rieducati al “credo politico” tramite il lavoro coatto e un pervasivo “lavaggio del cervello”. E, di nuovo, arresti e scomparse di vescovi (oltre 40), sa­cerdoti e laici, controllo dello Stato sull’attività pasto­rale, divieto di pubblicazioni cattoliche. Ma anche in Viet­nam e Corea del Nord non è lecito professarsi pubbli­camente cristiani e lo Stato non tollera in alcun modo una dimensione religiosa nella ferrea organizzazione del­la società. A oltre duemila anni di distanza le parole del Vangelo ricordano all’Europa nichilista che la Fede si difende con il sangue, che il tempo dei martiri non è fi­nito e che come «hanno perseguitato me, perseguite­ranno anche voi» (GA 5, 20). (Dalla rivista: “Lepanto”)

Fonte: http://www.preghiereagesuemaria.it/sala/cristianofobia%20la%20nuova%20persecuzione%20mondioale.htm

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