CRITIANI PERSEGUITATI/ Card. Sako: ecco i disastri degli Usa, l’Isis è il nostro martirio

Il Papa non può venire in Iraq ma ha voluto essere vicino ai cristiani iracheni con la sua amicizia e con la preghiera”: così RAPHAEL I SAKO spiega la sua consacrazione a cardinale

Il card. Louis Raphael Sako con papa Francesco (LaPresse)Il card. Louis Raphael Sako con papa Francesco (LaPresse)

Ha due porpore sulle spalle, quella da patriarca della Chiesa cristiana caldea e quella da neocardinale, appena consacrato da papa Francesco. Per dire al mondo che i cristiani d’Oriente gli stanno a cuore, e dovrebbero starci a cuore. Raphael I Sako, cristiano caldeo, è un pastore e un uomo di sapienza, di alta cultura: nessuno come lui può testimoniare cos’ha vissuto la sua gente in Iraq, il martirio di tanti, così tenaci e saldi nella fede. E di ricordare le responsabilità di politiche ingenerose, crudeli, ripetutamente sbagliate, sulla pelle dei popoli, senza prudenze politically correct. Tocca chiedergli perché il titolo altisonante con cui lo si appella, Sua Beatitudine… “Perché vivere il Vangelo significa già vivere nella beata terra. Dunque un cristiano, se vuole essere vero, deve seguire le beatitudini. Io sono in cammino. Vivo nella pace, nella gioia e nella gratuità della fede cristiana”.

Lei è nato in un villaggio in Kurdistan. Aveva già la percezione da bambino di vivere in una terra considerata diversa, in qualche modo perseguitata, emarginata, anche se la sua famiglia era cristiana?

La mia famiglia è fuggita dalla Turchia nel 1925, dopo il genocidio degli armeni, caldei, assiri. A Zaho, alla frontiera, gli inglesi hanno dato agli esuli un villaggio che hanno ingrandito, costruito, e io sono nato lì. Ma i miei genitori possedevano dei terreni e avevano bisogno di operai musulmani, che sono venuti nel villaggio, e sono diventati quasi la metà del villaggio, fino a volerlo tutto per loro. Hanno ucciso mio zio: e allora mio padre ha preso un fucile e ha ucciso uno di loro, ne ha feriti altri 4, ed è stato poi in prigione. Per fortuna la moglie dell’uomo che era morto è andata a dire al giudice che mio padre aveva difeso se stesso e i parenti del fratello e che non era del tutto colpevole. Quindi è stato liberato. Ma naturalmente non siamo rimasti al villaggio, per paura e per la nostra sicurezza. Quindi siamo andati a Mosul, l’antica Ninive. E io sono cresciuto lì.

Per noi Mosul negli ultimi anni è diventata una delle roccaforti del Daesh, dell’Isis. Lei, quindi, già da giovane ha vissuto la guerra, la condizione di migrante. Una famiglia religiosa, cattolica la sua. Ha una sorella suora, entrata in convento nello stesso giorno in cui lei è entrato in seminario. Vi siete messi d’accordo?

No, veramente no! Avevo 12 anni e lei era più giovane di me. Sono andato alla stazione del treno perché lei doveva andare a Baghdad, alla casa madre delle suore dell’Immacolata. Dopo averla accompagnata in stazione sono tornato a casa per prendere la valigia e sono andato in seminario anch’io.

E chissà come era contenta quando le hanno messo la porpora rossa, che lei già portava, perché è abito dei patriarchi!

Per noi il rosso è il simbolo non del ruolo del potere, ma dell’amore, del sangue, del dare la vita per gli altri. Essere consacrato nella Chiesa vuol dire dare la propria vita. Non dobbiamo avere paura, come Gesù. Questo sacrificio non è per nulla, anche questi martiri di oggi… questo sangue è fertile. La pace verrà, insieme alla stabilità, alla dignità umana. Ma servono dei sacrifici.

Lei parla con grande chiarezza e serenità. Per noi, grazie a Dio, è inconcepibile pensare che dare la vita significa dare il proprio tempo, la propria opera, ma anche il sangue. Perché abbiamo il privilegio di godere, come cristiani, di una situazione favorevole da tantissimi secoli. La Chiesa irachena no.

Nella nostra storia, anche prima dell’arrivo dei musulmani, c’erano i persiani. Centinaia di cristiani sono stati assassinati perché tali. Poi, quando i musulmani sono venuti, hanno forzato tanti alla conversione, migliaia si sono rifiutati e sono stati uccisi per la fede. Abbiamo da sempre dei martiri, anche ora con l’Isis.

Diventare sacerdote a dodici anni, perché una scelta così pericolosa?

Sono rimasto molto commosso vedendo un prete della chiesa dove andavo a messa con mio padre. Per me era un esempio, un modello, sognavo di diventare un prete come lui. Oggi sono un po’ rari questi modelli, ma ci sono nella Chiesa.

E lei, padre (la chiamano habuna i suoi fedeli, papà) ha mantenuto questo aspetto pastorale insieme a tutte le competenze teologiche. Parla correntemente otto lingue, e ha voluto prendere, oltre a una laurea in teologia, anche una laurea in filosofia alla Sorbona, uno dei templi della cultura laica.

Dopo la laurea a Roma sono tornato in Iran, c’era la guerra con l’Iraq, un’assurdità, un milione di morti. Sapevo che se non prendevo un dottorato “laico” dovevo intraprendere il servizio militare. Ho visto Saddam faccia a faccia, ho detto che avevo un dottorato come gli altri, ma mi dissero che non era riconosciuto perché era del Vaticano. Fare la guerra come prete? Io non sono fatto per fare la guerra, gli dissi…

Nessun uomo è fatto per fare la guerra…

Mi rispose: “Va bene, preghi per me”, e ritardò nel trattare il mio caso, in modo da permettermi di tornare a fare il sacerdote a Mosul. Poi ho avuto un invito, c’era un congresso ad Amsterdam e lì ho incontrato un professore della Sorbona, che mi offrì un posto di dottorato a Parigi. In nove mesi ho finito… e ho saltato il servizio militare!

Lei ha tuonato più volte contro le guerre decise a tavolino, che ricadono sempre sulla gente, sul popolo e ha detto anche che c’è un piano per dare una forma nuova al Medio Oriente, da dividere secondo frontiere etniche e religiose.

Certo. È il piano degli americani. Più volte hanno parlato di questo piano del nuovo Medio Oriente, da Kissinger alla signora Clinton, apertamente. Dall’inizio hanno sbagliato nella politica del Medio Oriente, dopo la prima guerra mondiale. Non hanno cercato di realizzare un progetto di cittadinanza, hanno portato, per esempio, un re dall’Arabia Saudita per l’Iraq, un altro per la Giordania, quando c’erano gli iracheni, c’erano i giordani! Potevano mettere in Costituzione come base solo la cittadinanza, per cui tutti i cittadini sono uguali, senza dire che sono curdi, arabi, cristiani, musulmani… questa è una cosa personale, mentre la cittadinanza è per tutti. Così è esploso come un vulcano, e tutti cercano un’altra identità: sciita, sunnita, cristiana, araba, curda…, come possiamo riconciliare questi opposte identità? È quasi impossibile.

Dopo la caduta del regime di Saddam Hussein quanta della sua gente è dovuta fuggire? E quanta può tornare oggi?

Quasi un milione di cristiani, ma anche di più musulmani, tutta l’intelligenza, i ricchi e i giovani, partiti per cercare un futuro. E secondo me chi se n’è andato non ritorna, perché i bambini ormai vanno a scuola in altri paesi, e non vogliono.

Cosa serve all’Iraq per uscire da una crisi perenne?

Bisogna cambiare la mentalità, la cultura settaria e creare uno stato secolare, civile, laico, basato sulla cittadinanza. Un’economia più forte, l’indipendenza dai paesi vicini, per esempio l’Iran, l’Arabia Saudita, la Turchia, e anche gli Stati Uniti. Buoni rapporti, ma senza che possano intervenire nella politica interna, è un impatto troppo forte: gli iracheni non sono liberi.

Che compito possono avere i cristiani, pur così pochi? Voi siete i nostri fratelli più antichi, perché san Tommaso è vostro padre e lui ha evangelizzato queste terre, la vostra lingua è una forma dell’aramaico che parlava Gesù. Lei ha detto più volte che anche se pochi, voi avete il compito di essere sale e lievito.

Per voi la Bibbia dei primi Padri ha un linguaggio diverso, non potete capirla, ma per noi è come se fosse nel nostro sangue, noi capiamo cosa vuol dire essere il sale, la luce… Abbiamo questa coscienza, dunque abbiamo una missione e quando c’è una missione ci vuole anche tanto sacrificio. Noi contiamo molto nella società irachena, la nostra qualificazione, l’educazione, soprattutto l’apertura. Quando una donna cristiana esce per strada tutti la guardano e dicono: “Perché lei è libera e noi non possiamo?”. Si cambia piano piano, anche grazie alla nostra condotta, alle nostre preghiere.

Padre Sako, c’è un libro, scritto qualche anno fa, quando ancora la maggior parte delle città dell’Iraq erano nelle mani dell’Isis, Più forti del terrore, pubblicato dalla Emi: questo titolo riassume quello che ci ha detto finora, racconta una storia terribile che abbiamo vissuto come cronaca quotidiana, come paura, che questo terrore arrivasse anche da noi. Ci siamo poi abituati al terrore che voi avete vissuto giorno dopo giorno. Lei non ha mai avuto paura?

Mai, mai, mai. Anche io ho parlato con alcuni dell’Isis, per fare delle trattative, ho salvato tanta gente così. Io penso che bisogna conoscere le ragioni del perché c’è l’Isis, Al Qaida: è tutto molto complicato. Voi non sapete niente di che cos’è l’Isis. L’Isis è cieco. L’Isis secondo me è politicizzata, è chiaro, ma l’Isis si basa sui versetti del Corano. I musulmani devono fare una nuova lettura dei versetti che chiedono la violenza, che pensano che solo l’islam sia la vera religione, che le altre religioni siano false. Se ci sono versetti del tempo di Maometto bisogna inserirli nel contesto, fare una esegesi, come noi abbiamo fatto.

La maggior parte dell’islam in Iraq è moderato?

Non tutti i musulmani sono fanatici, non bisogna generalizzare, e per natura gli iracheni sono moderati, abbiamo vissuto 35 anni in un regime laico. Poi gli americani hanno aperto le frontiere e sono entrati tutti questi fondamentalisti dalla Giordania, dall’Egitto, dallo Yemen, dall’Arabia Saudita…

A proposito di frontiere, lei si è espresso in due occasioni in maniera molto forte. Una affermando che è sbagliato accogliere gente che scappa dall’Iraq quando bisognerebbe aiutarla a rimanere lì, perché poi vi manca la gente, vi mancano i giovani.

Perché tutto viene tagliato, una tradizione, un patrimonio che data oltre duemila anni a questi caldei, una civiltà, il cui patrimonio vive nella comunità, nella lingua. Se vanno via i bambini, dopo una generazione o due saranno americani, francesi, italiani. E dunque bisogna proteggere la gente sul posto. E poi, ripeto, i cristiani hanno una missione, se vogliono aiutare i musulmani ad aprirsi. Ci vogliono i cristiani, nella loro terra.

E poi ha parlato contro il muslim band americano, la discriminazione dei migranti su base religiosa, che oltre ad essere ingiusta in sé, mette a rischio ancor di più i cristiani.

Non bisogna mai creare situazioni su base religiosa o etnica: se un uomo lascia il suo paese per ragioni economiche, o politiche, cerca una vita più degna e dev’essere aiutato. Io sono contro però le migrazioni forzate, di massa: bisogna fare discernimento. È meglio aiutare gli africani, gli asiatici a rimanere nei propri paesi, promuovere progetti sul posto, per case, scuole, ospedali… Qui in Occidente i cristiani iracheni che conosco sono dispersi, isolati, stressati. Non sanno la lingua, la mentalità, è un altro mondo.

È stato importante per la sua gente il riconoscimento del Papa. So che hanno festeggiato in tantissimi, cristiani e musulmani.

Per me non è cambiato nulla, sono un patriarca, e il titolo è superiore a quello di cardinale. Ma c’è un messaggio dietro a questa nomina: il Papa non può venire in Iraq, l’ambiente non è pronto, quindi ha voluto essere vicino ai cristiani iracheni con la sua amicizia e con la preghiera, creando un ponte tra la chiesa irachena e la Santa Sede.

Cosa chiede la Chiesa irachena a noi?

La sicurezza! La cittadinanza, il lavoro, le scuole, gli ospedali, e la fedeltà alla Chiesa universale. Chiede una pastorale fedele, vivace, vicina.

Anche in questi giorni l’incontro a Bari tra le chiese orientali è un segno dell’attenzione del Papa, verso realtà divise, isolate, che si sentano parte di un abbraccio comune.

Il Papa non è Papa dell’Occidente, non è solo il capo della Chiesa romana, latina. Tutta la Chiesa dev’essere presente nella sua persona. Quando siamo venuti in visita ad limina gli abbiamo detto che siamo dimenticati, anche se siamo un piccolo gregge vogliamo essere presenti nella Curia, e lui per esprimerci la sua solidarietà ha convocato tutti i patriarchi cattolici e ortodossi, per vedere insieme cosa la Chiesa può fare e cosa ci possiamo aspettare dalla società internazionale, le paure e le speranze. La prima speranza è la pace, per poter vivere liberi e con gioia, senza paura, senza sentirci schiavi.

Lo Stato islamico è stato sconfitto?

Militarmente sì, ma come ideologia è ancora forte, forse più forte. Perché non ha più un territorio, ma è nella mente, e l’ideologia spinge chi la serve a cercare vendetta verso gli occidentali, ritenuti colpevoli. Questo spiega gli attentati nei paesi europei.

Come si sradica questa ideologia malata?

Il compito dei musulmani e delle autorità religiose è fare una riforma degli insegnamenti, i discorsi nelle moschee devono essere liberi, aperti, non bisogna vivere nel VII secolo, nel primo dell’era musulmana. Il mondo cambia e tocca affrontare in modo corretto la modernità. Senza attenersi a una lettera antica. Io dico sempre di imparare dalla nostra esperienza, per cui la Chiesa è semper reformanda

Una bambina irachena cristiana, Myriam, ha commosso le coscienze qui da noi, spiegando in un’intervista, con ingenua ma netta coscienza, la sua offerta di perdono a chi l’aveva rapita, a chi l’aveva sradicata dalla sua città, Qaraqosh.

Sono andato a trovare la famiglia di Myriam, a Erbil, dove si è rifugiata. lI papà è cieco, è senza lavoro, ci sono tanti bambini a casa. La piccola era stata rapita, poi liberata con un piccolo riscatto. I genitori hanno vissuto un periodo drammatico, ma hanno resistito con la preghiera, la solidarietà, la vicinanza. Oggi, che tutto è basato sul denaro, che l’individualismo, soprattutto qui da voi, trionfa e uccide, la fede in Dio e la fedeltà agli uomini sono la cosa più importante da ricordare.

(Monica Mondo)

L’intervista integrale al card. Sako si può vedere domenica 8 luglio ore 20.30 su Tv2000 (canale 28, Sky canale 146, Tivusat 18.

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