Divorzio, il grande tabù | Giuliano Guzzo

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Quarantuno anni dal referendum che, il 12 e 13 maggio del 1974, vide confermato il divorzio in Italia sono abbastanza per provare a criticare questo istituto? Sembra proprio di no. La già vasta maggioranza di cittadini, pari al 59,2% degli votanti, che allora votò contro l’abrogazione del divorzio negli anni pare abbia subito un’ulteriore crescita fino a decretare l’odierna impossibilità di tornare a parlare dell’indissolubilità coniugale. L’eccezione non è più dunque il divorzio – che prima di spopolare, nell’idea di molti, avrebbe dovuto interessare solo casi limite di violenza o di manifesta impossibilità, per una coppia, di continuare a stare assieme – ma la sua critica, che attira su coloro che osano formularla accuse ed antipatie diffuse; come se il divorzio, anziché istituto positivo, fosse una sorta di emanazione divina, d’intoccabile comandamento.

Eppure, a quattro decenni dall’appuntamento referendario del ’74, sarebbe importante potersi confrontare, potersi chiedere se il venir meno dell’indissolubilità matrimoniale sia stato davvero, come spesso e volentieri si ripete, progresso civile, o se invece qualcosa in realtà sia andato storto. Del resto, abbiamo a disposizione una mole impressionante di letteratura scientifica che fotografa molto bene non solo le cause, ma anche le conseguenze del divorzio. Conseguenze che senza esagerare possiamo definire devastanti: per coloro che decidono di porre fine al loro matrimonio, che dovranno rifarsi una vita; per gli eventuali figli spettatori di un dramma che – attestano gli studi sulla materia – rimarrà impresso nella loro mente per anni; per la società stessa, che nel giro di pochi decenni ha subito un profondo precariato affettivo.

Solo che, a differenza di quello lavorativo – più recente e giustamente denunciato come piaga -, il precariato affettivo viene ancora oggi, ed oggi più che mai, rivendicato come diritto. Questo strabismo culturale ha generato il paradosso per cui può essere più facile per un marito lasciare la propria moglie, o viceversa, che per un datore di lavoro licenziare in modo definitivo, e senza giusta causa, un proprio dipendente. Infatti, anche se taluni lo ignorano, con la legge approvata nel 1970 e confermata dal referendum del 1974, pur non dicendolo espressamente, in Italia si è introdotto – peraltro con anticipo sulle altre legislazioni -il divorzio per scelta unilaterale di un coniuge. Si tratta di qualcosa di gravissimo che è quasi proibito discutere e al quale ora si vuole aggiungere il cosiddetto “divorzio breve”, con velocizzazione e semplificazione procedurale.

Ma in tutto questo, dov’è il celebrato progresso conseguente all’introduzione del divorzio? Non nella garanzia, per un partner, di prevenire la violenza, che statisticamente è maggiore nelle coppie conviventi – e che, in quanto tali, possono sciogliersi ancora più rapidamente – rispetto alle coppie sposate. Progresso non sembra esservi neppure nella ritrovata libertà d’inseguire il vero amore giacché il tasso di fallimenti delle seconde nozze, contraddicendo un pensiero diffuso, non è inferiore a quello delle prime. Ancora più difficile, inoltre, è parlare di progresso considerando la stessa implicazione del divorzio, vale a dire la fine di un matrimonio che, per quanto a volte possa apparire inevitabile e liberatoria – e per quanto il pensiero dominante si sforzi di addolcirla fino a promuovere grottesche “feste del divorzio” – non potrà mai che essere percepita, da chi la vive, per quello che è: un enorme fallimento.

La natura intrinsecamente negativa dell’instabilità coniugale – che qui si vuole discutere senza emettere giudizio alcuno su situazioni specifiche o persone – dovrebbe pertanto stimolare un dibattito sul precariato negativo quale fenomeno da arginare. Un dibattito che purtroppo non solo tarda a ravvivarsi ma, come abbiamo ricordato, diviene giorno dopo giorno più difficile. Se infatti per anni non si è voluto o saputo criticare pubblicamente il divorzio, c’è da scommettere che, una volta che questo assumerà la modalità snella del “divorzio breve”, sarà ancora più difficile di quanto già non sia pensare a provvedimenti a favore della solidità familiare. La frammentazione affettiva proseguirà così il proprio corso, senza tuttavia divenire mai definitiva. Per quanto possa apparire incredibile, alla fine sarà cioè il matrimonio unico ed indissolubile a tornare sulla scena e ad infrangere il tabù del divorzio.

Com’è possibile? Per il semplice fatto che l’uomo, ogni uomo, abbisogna di una stabilità affettiva, prima ancora che professionale; del cuore, prima che dello stipendio; della ricchezza interiore, rispetto a tutte le altre. Una volta che la liquefazione relazionale così ben descritta da Zygmunt Bauman sarà compiuta, sarà perciò evidente a tutti non già la libertà perfetta bensì il perfetto vuoto a cui questa avrà condotto. E senza necessariamente fare appello ad una fede religiosa, nelle persone tornerà a radicarsi la nostalgia per quello che dura rispetto a quello che passa, per quello che resiste al tempo rispetto a quello che dal tempo viene consumato. La libertà di scelta, oggi confusa con la costante revocabilità di scelta, diverrà così realmente tale. E alle foto di nonni e bisnonni che riuscivano a stare uniti una vita interna, nell’album di famiglia, ne seguiranno finalmente altre: di coppie nuove ma egualmente inossidabili.

Sorgente: Divorzio, il grande tabù | Giuliano Guzzo

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