Don Mangiarotti: “Tecnoscienza non aiuta la convivenza: la gravissima débacle e il cammino della Chiesa” | intelligonews

12 Jan 2015  – di Marco Guerra

La grande marcia di Parigi mostra un’unità di facciata di un’Europa incapace di ritrovarsi nei suoi principi fondanti e nelle sue radici culturali. Nei luoghi deputati alla decisione, le Cancellerie del Vecchio Continente si sono infatti subito divise sull’eventuale modifica del trattato di Schengen. Ma a dettare il confronto tra visioni diverse sono ancora le categorie di un atteggiamento laicista “incapaci di riconoscere quello che non ha generato o che non è secondo i propri calcoli” come spiega a IntelligoNews, Don Gabriele Mangiarotti, responsabile di CulturaCattolica.it. Il religioso mette quindi in guardia da un Europa “che rinnega le proprie radici cristiane e che basa la sua superiorità su una tecno-scienza che sembra onnipotente e in cui quindi sarà sempre più difficile creare forme autentiche di convivenza”.

I fatti di Parigi ci mettono ancora davanti alla dicotomia laicismo vs integralismo religioso. Colpisce poi il fatto che gli autori della strage siano due francesi di seconda generazione. Secondo molti commentatori tutto questo è figlio anche di un Occidente che ha rinunciato a dialogare attraverso la propria identità?

«Innanzitutto dobbiamo chiarire i termini. Il laicismo coincide con l’esclusione della religione, di qualsiasi religione, dallo spazio pubblico. In questo senso la Francia ha percorso un cammino lunghissimo che ha portato a relegare ogni manifestazione religiosa nello spazio privato, al punto che anni fa un rapporto della Chiesa che soffre l’aveva inserita tra le nazioni in cui la libertà religiosa era a rischio. Tale impostazione sta diffondendosi anche in Italia, ad opera di gruppi che si rifanno a MicroMega o a realtà che in nome di un ateismo cosiddetto razionalista, e che si propongono di intraprendere iniziative di autentica scristianizzazione. Tali realtà non sanno fare i conti con l’emergere imponente della dimensione religiosa (in questo caso con l’islamismo) che chiederebbe un approccio più serio e capace di autentico confronto. Basta pensare a ciò che scrive Sergio Romano a proposito di quanto affermato da Al Sisi, il Presidente d’Egitto, in riferimento a una critica dell’islam fondamentalista: «Sembra di capire – conclude Sergio Romano – anche se non viene detto esplicitamente, che il presidente chieda ai custodi della fede di non più considerare le antiche scritture un testo immutabile, da leggere alla lettera, ma un testo storico da leggere con criteri moderni….». Come chiedere ad un qualsiasi credente di una religione ritenuta rivelata, di trasformare la religione stessa secondo propri criteri, ritenuti dall’interlocutore più moderni e performanti. Per quanto riguarda il cosiddetto integralismo, forse bisognerebbe usare «fondamentalismo», visto che tale definizione veniva, almeno qui in Italia, usata per screditare coloro che si opponevano alla «scelta religiosa» ritenendo che la fede dovesse avere un rilievo pubblico e non venisse ritenuta una semplice posizione privata, irrilevante nello spazio pubblico. Da questo punto di vista, il problema reale è quello che i Papi hanno chiamato «una sana laicità», che potrebbe essere la versione politica del principio di sussidiarietà, là dove si riconosce il valore della società e una certa autolimitazione dello Stato, che si riterrebbe incompetente nelle questioni religiose e di coscienza.

Potremmo dire, parafrasando Eliot, che «la Chiesa ha abbandonato l’umanità e che l’umanità ha abbandonato la Chiesa». Per parte mia ritengo che da troppo tempo in Francia, come per certi aspetti anche in Italia, si sia avviato un processo per cui la Chiesa ha rinunciato a leggere il Concilio Vaticano II secondo l’ermeneutica della continuità preferendo una posizione di rottura con la tradizione, che ha portato a una gravissima débacle educativa. Al punto che una presenza chiara nella società (penso alle questioni della cosiddetta legge Taubira) è stata delegata e vissuta da un popolo che non ha sentito accanto a sé la Chiesa (come purtroppo accade anche in Italia). E se Papa Francesco disse ai politici francesi che loro compito era anche quello di abrogare le leggi ingiuste, tale auspicio pare essere caduto nel vuoto (se poi si tiene conto che la partecipazione alla vita della Chiesa è calata in Francia ai minimi storici) e che la forza delle lobbies massoniche e gay (come ricordata da Papa Francesco) ha una rilevanza quasi totalizzante. Certo, l’occidente ha perso la coscienza e la fierezza della propria identità. E mi pare che la Chiesa abbia dimenticato o almeno trascurato la propria vocazione educativa».

Il nostro direttore ha scritto un editoriale in cui parla di “scontro di inciviltà” tra il pensiero liberal pronto a dissacrare ogni forma di sacralità e l’oscurantismo islamico. Secondo lei fin dove può spingersi la satira?

«Condivido pienamente il giudizio del vostro direttore. E mi spiace che in questo momento i vari mezzi di comunicazione non sappiano fare con chiarezza un discorso chiarificatore, non settario ma nemmeno appiattito sulla vulgata del politically correct, forse per paura di ritorsioni o di un calo di popolarità. Ma questo deve essere il tempo della chiarezza e della onestà intellettuale. Ho pubblicato su CulturaCattolica.it un lucidissimo giudizio di Vl. Soloviev sull’islam. In sintesi dice che per Maometto si tratta di un Dio senza presenza e di un uomo senza libertà. Ora queste caratteristiche della religione, se non moderate, possono certamente favorire quello che avete definito oscurantismo. Ma forse il giudizio più chiaro l’ha dato Papa Benedetto a Ratisbona, quando ha parlato della ragione e della fede. «L’affermazione decisiva in questa argomentazione contro la conversione mediante la violenza è: non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio. […] Per la dottrina musulmana, invece, Dio è assolutamente trascendente. La sua volontà non è legata a nessuna delle nostre categorie, fosse anche quella della ragionevolezza. In questo contesto Khoury cita un’opera del noto islamista francese R. Arnaldez, il quale rileva che Ibn Hazm si spinge fino a dichiarare che Dio non sarebbe legato neanche dalla sua stessa parola e che niente lo obbligherebbe a rivelare a noi la verità. Se fosse sua volontà, l’uomo dovrebbe praticare anche l’idolatria. Se poi ci volgiamo a considerare la cultura che ha prodotto la satira di Charlie Hebdo ci accorgiamo da un lato che la dissacrazione, che arriva fino alla bestemmia (avete pubblicato sul vostro sito alcune di queste immagini, offensive non solo per un credente, ma anche solo per un uomo di buon senso) sembra essere atteggiamento costante, e ritenuto atto supremo di libertà. Dall’altro questo atteggiamento esprime la posizione dell’imperialismo culturale dell’occidente, che ritiene gli altri, in questo caso credenti cristiani o islamici, inferiori, e quindi passibili di qualsiasi forma di dileggio.

Cioè?

È quell’atteggiamento di superiorità che, nascondendosi sotto l’apparenza di una libertà di pensiero, non sa dare il giusto peso alla realtà, arrivando così a un disprezzo sistematico che si ritiene presuntuosamente innocente e nel proprio diritto. È purtroppo l’atteggiamento illuministico di una ragione che si pretende misura della realtà e supremo arbitro, incapace di riconoscere quello che non ha generato o che non è secondo i propri calcoli. Una ragione intollerante e faziosa, che è incurante della realtà dell’altro e che si ritiene comunque innocente. Basti pensare all’indifferenza di fronte ai tanti morti provocati dalle varie vignette. Per il bene della causa quelle vittime non contavano affatto, anzi, servivano a fare sentire nel giusto coloro che le creavano e diffondevano.

Da un lato la satira non può mancare di rispetto per l’altro, non può essere una forma di disprezzo (e quindi deve sapere porsi dei limiti che non sono solo il buon gusto e la legge) e dall’altro deve tenere conto che c’è un bene che va realizzato, ed è il bene della persona, nei confronti della quale ci vuole sempre una infinita pietas. Mi pare che molte vignette di CH siano state proprio senza quella pietà che rende anche lo scherzo accettabile e lo rende contributo di bene».

L’Europa si era convinta che per integrare queste persone bastava offrire loro il pensiero debole del modello occidentale basato solo su processi economici che escludono la componente antropologica.  Questa strategia sembra fallita?

È una strategia fallita sotto tutti i punti di vista. Basta riflettere sul sostegno dato alle varie forme di protesta che sono poi sfociate in regimi ancora più oppressivi. Basta pensare alla politica che ha tolto di mezzo i «dittatori» per fare posto a peggiori e più sanguinarie dittature.

Dobbiamo tornare al metodo del Signore e così ben proposto da Papa S. Giovanni Paolo II nella sua enciclica sulla missione: «Il dialogo si fonda sulla speranza e la carità e porterà frutti nello Spirito. Le altre religioni costituiscono una sfida positiva per la chiesa: la stimolano, infatti, sia a scoprire e a riconoscere i segni della presenza del Cristo e dell’azione dello Spirito, sia ad approfondire la propria identità e a testimoniare l’integrità della rivelazione, di cui è depositaria per il bene di tutti. Deriva da qui lo spirito che deve animare tale dialogo nel contesto della missione. L’interlocutore dev’essere coerente con le proprie tradizioni e convinzioni religiose e aperto a comprendere quelle dell’altro, senza dissimulazioni o chiusure, ma con verità, umiltà, lealtà, sapendo che il dialogo può arricchire ognuno. Non ci deve essere nessuna abdicazione né irenismo, ma la testimonianza reciproca per un comune progresso nel cammino di ricerca e di esperienza religiosa e, al tempo stesso, per il superamento di pregiudizi, intolleranze e malintesi. Il dialogo tende alla purificazione e conversione interiore che, se perseguìta con docilità allo Spirito, sarà spiritualmente fruttuosa […] Al dialogo si apre un vasto campo, potendo esso assumere molteplici forme ed espressioni: dagli scambi tra esperti delle tradizioni religiose o rappresentanti ufficiali di esse alla collaborazione per lo sviluppo integrale e la salvaguardia dei valori religiosi; dalla comunicazione delle rispettive esperienze spirituali al cosiddetto «dialogo di vita», per cui i credenti delle diverse religioni testimoniano gli uni agli altri nell’esistenza quotidiana i propri valori umani e spirituali e si aiutano a viverli per edificare una società più giusta e fraterna.

Certo sarà difficile operare in questa linea di rispetto, collaborazione e correzione finché i nostri intellettuali continueranno a propinarci falsità sulla Chiesa e la sua storia. Basta leggere quanto Ostellino scrive sul Corriere della Sera «Da noi, solo il Cattolicesimo aveva coltivato, nel corso della sua storia e come dottrina, la conversione, se necessario anche violenta, nei confronti di chi cattolico non era e non era disposto a diventarlo – macchiandosi, a volte, di forme di forte intolleranza». In una Europa e in un Occidente che rinnega le proprie radici cristiane e che basa la sua superiorità su una tecnoscienza che sembra onnipotente (quantunque senz’anima) sarà sempre più difficile creare forme autentiche di convivenza. La soluzione ritengo sia data da quella che i cattolici chiamano «Dottrina sociale cristiana» (anche se sembra, tra i cattolici stessi, di non godere di buona fama). Il tentativo sempre rinnovato di realizzare – con l’ausilio della ragione rettamente intesa – il bene comune ».

Cancellare i nostri simboli, i nostri riti, i nostri miti e il nostro senso di appartenenza, la nostra storia (fatta anche di guerre e sangue al pari della loro) aiuta questo processo di integrazione o alimenta la loro voglia di ritrovare le radici perdute della cultura di provenienza?

«Come pensare che il disprezzo dissacrante dei vignettisti di Charlie Hebdo possa essere proposta seria per l’uomo? Che persone che ritengono la fede un fattore fondamentale per la vita e la convivenza possano riconoscersi in un cinismo per cui tutto può essere impunemente deriso? Ripensiamo alla storia della Polonia: per la cultura ha saputo resistere ai peggiori tentativi di manipolazione e di cancellazione dalla faccia della terra. Giovanni Paolo II all’UNESCO, nel 1980, ha ricordato che, di fronte a tutti i tentativi di annullare l’identità del suo popolo, solo la cultura (custodita e trasmessa dalla Chiesa) ha saputo preservare una esperienza umana di dignità e libertà. Ha affermato, di fronte a tutti i maggiori rappresentanti del mondo della cultura e della politica: «Io sono figlio di una nazione, che ha vissuto le più grandi esperienze della storia, che i suoi vicini hanno condannato a morte a più riprese, ma che è sopravvissuta e che è rimasta se stessa. Essa ha conservato la sua identità ed ha conservato, nonostante le spartizioni e le occupazioni straniere, la sua sovranità nazionale, non appoggiandosi sulle risorse della forza fisica, ma unicamente appoggiandosi sulla sua cultura.» Chissà se l’occidente e i suoi intellettuali capiranno la lezione? Certo non sarà facile, vista la tendenza ad usare della scuola e dei mezzi di comunicazione più per trasformare la mentalità che per approfondire l’identità e custodire il patrimonio delle generazioni che ci hanno preceduto, pur se attraverso un serio processo di purificazione. Siamo figli del «Fatta l’Italia bisogna fare gli italiani», e sappiamo che cosa questo ha significato per la nostra nazione».

La Chiesa come può aiutare il dialogo tra culture e l’integrazione di questi nuovi cittadini? Lei vede un islam moderato a cui tendere la mano?

«Credo che questo tempo offra un’occasione perché la Chiesa impari la lezione che papa S. Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno dato. Ripenso all’enciclica sulla missione (Redemptoris missio) e al magistrale discorso di Ratisbona, attaccato, prima che dai mussulmani, dalla lobby laicista e massonica in America. Ho già citato l’affermazione a mio parere presuntuosa e scorretta di Sergio Romano, che chiede per un dialogo la cancellazione dell’identità. Seguendo Benedetto XVI ritengo che il dialogo sia possibile tra le culture (del resto anche a me – come penso a tanti altri – è capitato di esserne testimone e protagonista). E capita che in questo processo di incontro siano possibili anche frutti estremamente positivi. Del resto la storia è anche documentazione di questo. E, per quanto riguarda la parte cristiana, è sempre più necessario vivere un serio impegno di evangelizzazione. Avendo insegnato molti anni nella scuola ho potuto constatare che i giovani, se presi sul serio e di fronte ad una chiara identità, sanno reagire e mettersi in discussione, costruendo spazi comuni di confronto. E dove gli stessi giovani sanno «dare le ragioni della loro speranza» accade anche che si avvii un serio processo di conversione che, anziché cancellare la storia personale, la sa far fruttare in intensità e creatività.

Per quanto riguarda il cosiddetto islam moderato ritengo che sia un cammino che gli stessi mussulmani devono poter compiere rileggendo la propria storia, le proprie esperienze, i tentativi che sono stati fatti. Certo è un cammino difficile, proprio per la stessa natura della loro religione, per il fatto che non esista una unica autorità, e che la lettura del loro testo sacro, con le evidenti differenze dovute al contesto storico in cui le sure sono state scritte, dà luogo a differenti interpretazioni. Quante volte abbiamo sentito definire l’islam una religione di pace, quante volte abbiamo sentito affermare un comportamento violento nei confronti di coloro che professano altre religioni… Perché si possa parlare di islam moderato bisogna che loro, al loro interno, imparino ad affrontare la seria questione dell’interpretazione e tolgano alle scuole di fanatismo e di intransigenza il monopolio della comunicazione e della educazione.

È certo un cammino lungo e difficile, ma se non si realizzerà porterà certamente a uno scontro violento, dagli esiti incerti. È conveniente per tutti mettersi su questa strada.

Per quanto poi riguarda la Chiesa, sarebbe necessario il cammino della verità. Non si potrà mai ottenere un esito buono se – come si comincia a sentire, e per me con un certo fastidio – pastorale e dottrina sono in qualche modo separate. Ancora una volta quanto ci ha testimoniato S. Giovanni Paolo II può essere una buona strada da seguire».

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